Venerdì 15 Novembre 2024

Lavoro di squadra? Macchè! In ufficio ci si aiuta solo per calcolo

ROMA. Lavoro di squadra? Se ne parla, si sa che è la cosa che meglio fa funzionare un ufficio ma poi in pratica accade davvero poco e in tempi di crisi più che la generosità verso i colleghi vince l'egoismo che salvaguarda se stessi, anche perchè l'esempio delle aziende va nella direzione contraria, in barba degli sbandierati protocolli etici. La tendenza è 'certificata'  da uno studio dell'università di Stanford, appena pubblicato su Academy of management discoveries. In ufficio l'istinto della reciprocità viene represso. Sul lavoro vale il detto 'fidarsi è bene, non fidarsi è meglio' perché i colleghi tendono a non dare una mano né a restituire i favori ricevuti, a meno che questi ultimi non portino dei vantaggi personali futuri. Chi è generoso, alla lunga si trova in grossa difficoltà e perde l'abitudine perché la mancanza di collaborazione è all'ordine del giorno, anche se un quadro del genere crea un ambiente di lavoro meno produttivo ed efficiente. I test dell'Università dimostrano che ci si sente meno obbligati a ricambiare i favori degli altri quando ci si trova in un contesto professionale piuttosto che personale perché si è più propensi a credere che i favori vengano fatti per calcolo e non per generosità. Gli esperimenti dimostrano inoltre che sul lavoro gli individui sono più calcolatori e decidono di collaborare o no sulla base di benefici personali che potrebbero trarne in futuro. Una mentalità calcolatrice che non include la generosità. “La norma sociale della reciprocità è carente nelle organizzazioni lavorative” dicono gli studiosi. La causa di un tale cortocircuito nei comportamenti umani? “I vertici aziendali” - rispondono gli autori - “Il motivo di una tale andamento lo si vede quotidianamente nel modus operandi delle stesse imprese, pubbliche o private, che nonostante i nuovi principi etici, di reciprocità e di lealtà sbandierati negli ultimi tempi nei report, sono spesso le prime a fare lo sgambetto ai propri dipendenti, tradendo le promesse fatte al momento degli accordi iniziali. Regna l'incertezza sul lavoro”. Gli autori riferiscono che i dipendenti che si sono comportati in modo più leale non vengono ricompensati e che molte società hanno eliminato o stanno cambiando i piani di pensionamento e i benefits pattuiti in principio, come le assicurazioni sulla salute o altro. Aumentano inoltre i casi in cui i dirigenti preventivamente dicono ai nuovi assunti di non aspettarsi la realizzazione degli impegni reciproci e, spesso, su consiglio degli avvocati del lavoro, dicono ai dipendenti che la buona gestione non assicurerà la continuità del lavoro a prescindere dalla lealtà e da quanti anni si lavora. “E tutto questo accade nonostante sia stato ampiamente dimostrato che un tale andamento porta a conseguenze negative per le stesse società, come un calo delle prestazioni dei singoli lavoratori e della produttività complessiva” precisano i ricercatori. “Tipici comportamenti che indicano una mentalità più scaltra e calcolatrice si verificano quando, ad esempio, i colleghi si dimostrano titubanti nell'aiutare un loro pari che segue un progetto vicino alla scadenza” – ha commentato al Wall Street Journal Jeffrey Pfeffer, fra gli autori dell'indagine - “Chi aiuta gli altri lo fa solo perché dovuto e non per principi morali o perché disponibile”. “Le organizzazioni dovrebbero incoraggiare più reciprocità fra colleghi nei fatti esaltando, ad esempio, il contributo passato apportato dai colleghi più anziani ed enfatizzando le relazioni sociali. Ma sono poche le società che agiscono in questo modo nonostante si parli molto di lavoro di squadra, mancanza di gerarchie e cultura sul lavoro” - sottolinea Pfeffer che di fronte ad una tale situazione suggerisce che, se ciò non si può realizzare, che almeno vengano messi in guardia coloro che si affacciano sul mondo del lavoro . “Vedo giovani terribilmente delusi” - dice lo studioso - “perché non sono stati adeguatamente preparati ad abbandonare una mentalità generosa per proteggersi, anche psicologicamente”.

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