Un ramo d'ulivo e uno di quercia, una stella e una ruota dentata. E' questo l'emblema della Repubblica italiana, il simbolo identificativo del nostro Paese. E' quello che si vede sui pacchetti di sigarette, sulle bottiglie di liquore e sui passaporti. Meno conosciuto della bandiera tricolore, della maglia della Nazionale e dell’inno di Mameli, è il simbolo stampato su molti degli atti e dei documenti che firmerà anche il nuovo presidente della Repubblica. Fu disegnato dall’artista Paolo Paschetto, ma prima di vederlo approvato, l’autore dovette però superare due concorsi pubblici. Senza tuttavia mettere d’accordo tutti sulla bellezza della sua creazione. Ufficializzato il 5 maggio del 1948, anno che ha visto, tra l'altro, l'entrata in vigore della Costituzione italiana, l’emblema ha una storia lunga e accidentata. Un percorso creativo durato 24 mesi, due concorsi pubblici e un totale di 800 bozzetti presentati da 500 cittadini, fra artisti e dilettanti, ha portato all'immagine che vediamo oggi. Nel 1946, la neonata Repubblica italiana aveva bisogno di un simbolo che sostituisse lo stemma del Regno d’Italia. Al momento del referendum era stato scelto un simbolo temporaneo da stampare sulle schede: un’Italia circondata da una cinta di torri tra due rami di alloro. Ma ne serviva uno ufficiale. Il primo concorso a ottobre, con Alcide De Gasperi a capo del primo governo repubblicano, decide di istituire una commissione presieduta da Ivanoe Bonomi. L’idea era quella di creare un simbolo che fosse il risultato di un impegno corale. Per questo quattro mesi dopo venne bandito un concorso nazionale aperto a tutti i cittadini. Il tema era libero, ma con qualche vincolo: niente simboli di partito e utilizzo obbligatorio della Stella d’Italia bianca a cinque punte, “ispirazione dal senso della terra e dei comuni”, già simbolo della terra italiana presente nello stemma della monarchia. Per le cinque opere ritenute migliori era previsto un premio di 10mila lire. Al concorso arrivano 341 domande di candidatura e 637 bozzetti in bianco e nero. Solo cinque vengono selezionati. Ai cinque vincitori la Commissione chiese di fare nuove proposte basate su un tema preciso: una cinta turrita di mura con forma di corona, come simbolo della resistenza contro il nazifascismo, racchiusa da una ghirlanda di frasche, con la rappresentazione del mare in basso, la stella d’Italia in alto e le parole “unità” e “libertà”. A vincere è un artista di Torre Pellice, in provincia di Torino, Paolo Paschetto, classe 1885, che viene ricompensato con altre 50mila lire. A lui viene dato l’incarico di disegnare la versione definitiva dell’emblema. Paschetto si mise all’opera: il risultato risponde alla traccia iniziale, ma a Paschetto viene comunque chiesto di fare delle modifiche sulla merlatura delle torri e sulle scritte. La Commissione invia il disegno al governo per avere l’approvazione. Ma i riscontri non sono favorevoli: qualcuno lo definisce addirittura una «tinozza». I cattolici avrebbero voluto al centro la croce, i comunisti la falce e il martello. E anche Alcide de Gasperi in una lettera a Umberto Terracini lo definisce «un simbolo non molto ben riuscito e rappresentativo». Il progetto è dunque da rifare. Paschetto non aveva convinto nessuno. Viene istituita un’altra Commissione presieduta da Giovanni Conti, che bandisce un secondo concorso attraverso la radio. Questa volta l’indicazione è quella di privilegiare l’idea del lavoro, presente nel primo articolo della Costituzione italiana. Su 197 disegni, anche stavolta Paolo Paschetto ne esce vincitore, ma anche questa volta è costretto a ritoccare e modificare più volte il disegno originario. Il risultato finale è una stella bianca a cinque punte simmetriche centrata, all’interno di una ruota dentata d’acciaio, simbolo del lavoro, e circondata da un ramo di ulivo, che rappresenta la volontà di pace della nazione sia nel senso di concordia interna che di fratellanza internazionale, e un ramo di quercia, che incarna la forza e la dignità del popolo italiano. La stella, bisogna ricordarlo, è una delle icone più antiche associate all’Italia sin dal Risorgimento, che caratterizzò anche la prima onorificenza repubblicana della ricostruzione del secondo dopoguerra, ancora oggi simbolo dell’appartenenza alle Forze Armate. L’assemblea costituente approva l’emblema il 31 gennaio 1948, ma senza troppi entusiasmi. E dopo la decisione sui colori, il 5 maggio il presidente della Repubblica Enrico De Nicola ratifica la scelta con un decreto legislativo. L’emblema resiste in pace fino al 1987, quando Craxi lancia un nuovo concorso internazionale per rinnovarlo o addirittura ridisegnarlo in occasione delle celebrazioni del quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica. La Commissione incaricata riceve 239 proposte (fra i giurati c’era anche Umberto Eco), ma nessuna viene ritenuta soddisfacente. Negli anni Novanta a modificarlo ci prova nuovamente l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, secondo cui l’emblema «è il simbolo del socialismo reale». L’unica modifica minima è stata apportata durante il secondo governo Berlusconi, che “schiacciò” l’emblema nella ellissi del logo della presidenza del Consiglio dei ministri.