Giovedì 14 Novembre 2024

«Nomofobia», ecco la sindrome di chi si ritrova senza smartphone

Ma in quale guaio ci siamo cacciati? Ridotti a tremare se dimentichiamo il cellulare a casa, disposti a rinunciare a qualsiasi impegno pur di ritornare immediatamente sui nostri passi per recuperarlo e placare il panico che si impossessa di noi quando ci scopriamo lontani da quell'oscuro, ma non troppo, web del desiderio. E quando finalmente lo abbiamo di nuovo in tasca, in borsa, o meglio tra le mani, l'occhio rimane vigile per intercettare qualsiasi (auspicato) lampeggiare e l'orecchio attento a cogliere il primo squillo portatore non sano di notifiche, messaggi, foto, commenti. Spesso roba inutile, diciamo la verità, di cui fino a non molti anni fa, quando non eravamo così certi che ogni nostro commento o ogni nostra immagine potesse interessare il mondo, facevamo tranquillamente a meno.
Stili di vita che cambiano per chi, perfino durante il riposino pomeridiano tende l'orecchio al magico suono - quello che lo porta in una realtà virtuale - e mai si sogna di staccare quel cordone ombelicale con lui, il cellulare o qualsiasi altra diavoleria ne riproduca le funzioni. La paura (di nuova generazione) di rimanere sconnessi, di non essere liberi di wazzappare o toccare nervosamente il video dello smartphone alla ricerca degli ultimi aggiornamenti dagli amici o dal mondo dei social network, dilaga al punto da meritare un nome clinico. Ecco allora che, per indicare questa dipendenza da smartphone è nata la parola nomofobia, dall'inglese «no-mobile-phone», ovvero «senza telefonino»: una parola «portmanteau» che contiene il gioco di parole aglosassone «no-mobile» più il termine greco fobia.
Vediamoli allora questi utenti «affetti» dalla nuova sindrome, sicuri di incontrare noi stessi tra loro. Cominciamo dai sintomi: attacchi di panico e di ansia - che manco dal dentista - quando il telefono non è connesso o si sta per scaricare o, più semplicemente, quando non lo si ha a portata di mano. David Greenfield, professore di psichiatria all'Università del Connecticut, sostiene che essere legati intimamente al proprio smartphone è una dipendenza come ogni altra, perché causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettirore che regola il circuito celebrale della ricompensa. In parole povere: incoraggia le persone a svolgere attività che almeno in apparenza possano dare piacere. Così ogni volta che appare una notifica sul cellulare, che sia un messaggino o una nuova e-mail, sale il livello di dopamina, perché pensiamo - o speriamo - che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. E già qui ci sarebbe da scrivere un trattato perché di roba per cui entusiasmarsi, sulla rete, non è che ne circoli molta e la fregatura è dietro l'angolo. Non è possibile, ovviamente, conoscere in anticipo se questa novità sarà positiva o meno ed è proprio per questo motivo che tendiamo a controllare di continuo gli aggiornamenti.
Gli smartphone addict (gli assuefatti allo smartphone) diventano come i giocatori delle slot machine che, sperando nella combinazione che li renderà milionari, continuano a giocare. Ma il fenomeno della nomofobia è ancor più diffuso perché per controllare le notifiche non serve nemmeno una moneta: basta impugnare lo smartphone. Un sondaggio condotto dall'ente di ricerca britannico YouGov sostiene che più di sei ragazzi su dieci, tra i 18 e 29 anni, si addormentano pochi minuti dopo aver consultato il proprio smartphone, un atteggiamento da evitare assolutamente perché potrebbe nuocere pericolosamente alla salute. Due studiosi dell'Università di Genova, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente, hanno inserito la nomofobia nel «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali», la «bibbia» per gli psichiatri e gli psicologi di tutto il mondo quando si tratta di diagnosticare e trattare le patologie del comportamento e nuove paure. Spiegano: «L'essere disconnessi da un cellulare o un computer causa ansia, disagio, nervosismo e angoscia, emozioni negative sproporzionate rispetto alla reale situazione di pericolo personale, ma che per questo diventano patologiche. Come in ogni dipendenza, il primo sintomo è la negazione. Anche se la tecnologia, attraverso i social media, i social network, l'informatica sociale e i "social software", ci consente di sbrigare il nostro lavoro più velocemente e con efficienza, i dispositivi mobili possono avere un effetto pericoloso sulla salute: dobbiamo indagare il fenomeno ancor più in profondità e studiarne gli aspetti psicologici». Bragazzi e Del Puente parlano di una fobia bifronte: da una parte può essere utilizzata come «un guscio protettivo o uno scudo» in modo impulsivo, dall'altro «come mezzo per evitare la comunicazione sociale»: un paradosso che interessa le nuove tecnologie della comunicazione già noto alla psichiatria. Greenfield dal Connecticut aggiunge che «la sensazione di perdersi un aggiornamento, se non controlliamo in continuazione le nostre applicazione, è del tutto illusoria perché quello che succede sullo schermo non ha nulla a che fare con la nostra vita».
Un assunto su cui meditare, oggi che anche l'ozio, perfino quello in spiaggia, può diventare un prolungamento dell'ufficio o della vita sociale, con eccessi preoccupanti che possono trasformarsi in malattia. Li conoscete già, ma per scrupolo, ecco alcuni comportamenti a rischio: usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo chini su di esso, avere uno o più dispositivi, non staccarsi mai da un caricabatteria, sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato per mancanza di campo odi credito, perché la batteria è esaurita e/o, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l'uso del dispositivo: il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti. Ancora: guardare lo schermo del telefono per vedere se ci sono messaggi o chiamate perse. E ancora: mantenere il telefono cellulare acceso sempre, h24; dormire con cellulare o tablet a letto.
I ricercatori, che raccomandano, comunque, di evitare di definire tutti i comportamenti patologici perché, se così fosse, ben pochi si salverebbero dalla diagnosi, citano uno studio relativo a un uomo brasiliano che per 15 anni ha tenuto il suo cellulare sempre con sé, schiacciato dal terrore di non essere in grado di chiamare i servizi di emergenza o le persone care nel caso si fosse sentito male. E non aveva capito che stava già male. Soffriva di nomofobia.

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