ROMA. Per il mondo intero sarà per sempre la romantica eroina di «Chocolat» con cui sedusse Johnny Depp e la grande platea americana servendo, nel 2000, il cremoso dolce aromatizzato alla francese nel melodramma omonimo di Lasse Hallstrom. Per gli appassionati di cinema e di record è la sola attrice ad aver vinto il premio dell'interpretazione nei tre maggiori festival europei: Coppa Volpi a Venezia con «Film Blu» di Kieslowski (1993), Orso d'argento a Berlino con «Il paziente inglese» di Minghella (1997), Palma d'oro a Cannes con «Copia conforme» di Kiarostami (2010), mentre all'Oscar ha trionfato come attrice non protagonista sempre per «Il paziente inglese». Ma Juliette Binoche, che il 9 marzo festeggia i suoi primi, inquieti 50 anni, resta una delle attrici europee più difficili da inquadrare e rinchiudere in un'etichetta glamour. Certo è la musa ribelle del cinema francese degli anni '90, certo è la bellezza esotica che Hollywood ha adottato facendone anche oggi la star francese ed europea di gran lunga più pagata, certo è un'intellettuale schiva e ombrosa che sa ridere e far ridere, ma incarna al meglio la passione selvaggia e la bellezza distante dell'amore folle. E del resto a quest'ultimo copione sembra essersi adeguata anche nella vita privata con due figli nati da altrettanti matrimoni, una sequenza ininterrotta di amori turbolenti con compagni d'arte, una scarsa propensione alle apparizioni pubbliche e al gossip. Figlia d'arte (il padre è mimo, regista, artista, la madre attrice di origine polacca), la piccola Juliette sopporta la separazione dei genitori quando non ha ancora quattro anni, cresce in collegio dalle suore, si avvia all'arte in un istituto specializzato dopo la scuola dell'obbligo, si diploma al Conservatorio d'arte drammatica di Parigi, debutta al cinema nel 1982 in una produzione indipendente, «Liberty Belle». Il suo Pigmalione si chiama Jean-Luc Godard che la sceglie nel 1985 per il controverso «Je vous salue, Marie». La sua è una scommessa vincente, confermata l'anno dopo dal sodalizio con due maestri della generazione successiva, Jacques Doillon e Andrè Tèchinè. Frangetta ribelle, sensualità animale, volto sofferto e intellettuale, sorriso contagioso ed estroso, libri sotto braccio, sceglie come compagno «l'enfant terrible» dei salotti parigini, il regista Leos Carax per cui sarà l'eroina disperata di due film memorabili: «Rosso sangue» e «Gli amanti del Pont-Neuf». Intanto si tuffa in una produzione internazionale come «L'insostenibile leggerezza dell'essere» di Philip Kaufman in coppia con Daniel Day Lewis (1989), dal libro di Milan Kundera. Il trionfo verrà nel 1992 grazie a Louis Malle che le affida il torbido e sensuale ruolo dell'amante di Jeremy Irons ne «Il danno» dal romanzo di Josephine Hart. Steven Spielberg la vuole in «Jurassic Park», ma Juliette rifiuta per seguire Krsysztof Kieslowski nell'impresa di una trilogia sull'amore. L'applauso della Mostra di Venezia a «Film Blu» e la venerazione per i successivi «Bianco» e «Rosso» sono la conferma di un sodalizio umano e professionale che mettono Binoche su un piedistallo ben diverso da quello di una semplice attrice di successo. Le riuscirà così di passare per oltre due decenni (la vedremo presto alle prese con un «Godzilla» tridimensionale ma anche nel nuovo film di Olivier Assayas) con elegante nonchalance dal cinema di consumo a quello d'artista. Compagna di talenti inquieti come Leis Carax, Benoit Magimel, Santiago Amigorena, ama la campagna, gli animali, la solitudine, le buone letture. Ma come sa bene la grande platea di Cannes può apparire regale in un abito di alta sartoria, può essere il volto globalizzato di una campagna pubblicitaria, può incarnarsi nel cinema doloroso e urticante di un maestro come Michael Haneke («Cachè») oppure scegliere un regista sconosciuto, tutto all'insegna di un ideale anticonformista e vitale. Una «copia conforme» del suo essere più segreto (proprio come nel film di Abbas Kiarostami che la rappresenta al meglio) e della sua voracità di vita libera.
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