Ha vinto l'America della rabbia. E dei delusi. Ha perso l'America della speranza. E degli illusi. Che sia un bene per la principale democrazia d'Occidente lo diranno i prossimi quattro anni. Che sia un male per l'Europa – o almeno l'Europa di oggi, attendista e cerchiobottista – sembra un rischio già fin da adesso certificato.
Make America Great Again non è solo una frase stampigliata su cappellini e spillette dei seguaci del tycoon. Pur se non proprio originalissimo (vedi Reagan nel 1980 e i coniugi Clinton nel 1992 e nel 2008), rischia di essere il marchio a fuoco su quell'autarchico programma di governo che Trump nei suoi comizi show ha tracciato solo per slogan e frasi ad effetto e che però adesso diventerà codice d'azione. Capace di incidere su due temi fondamentali per gli equilibri globali: l'economia e la politica estera. Il primo è stato considerato il più importante – e determinante - dagli elettori repubblicani, che hanno invece snobbato il secondo nelle loro scale delle priorità (ben lontano da altri snodi come l'immigrazione, il lavoro, l'aborto, dunque di fatto ritenuto irrilevante). E se Trump giura - ballando e gigioneggiando – che la sua sarà «l'età dell'oro dell'America», c'è da capire quali effetti si riverbereranno sul resto del mondo, dal Vecchio Continente al Medioriente.
Spazzata via la chimera Kamala, improvvisata e poco empatica, voluta dalla sola oligarchia democratica, priva di alcuna investitura della base e mandata in fretta e furia sul ring senza neanche i guantoni di sostanza e carisma, tanto che non è certo servito il Tyson invocato dall'ingombrante rivale nelle ore della vigilia per mandarla ko, Trump promette di partire lancia in resta. Intanto i rapporti economici, il cuore caldo e pulsante di questo responso elettorale. Mentre da ieri il dollaro vola – così come le azioni del suo social Truth e il titolo di Tesla del suo amico e turbocompressore Elon Musk - si delineano i nuovi scenari. A cominciare dal ventilato ripristino dei dazi: capestro per la Cina (60 per cento?), ma destabilizzanti anche se solo del 10 o 20 per cento per i paesi europei. Che dovranno sostanzialmente decidere da che parte stare, per tenere compatti i cocci del vaso stretto fra i due giganti mondiali. E potrebbe anche non bastare, se è vero che Trump sembra alquanto allergico alla diplomazia delle alleanze. Da navigato - e meno spregiudicato di quel che sembra - uomo d'affari, crede piuttosto negli scambi, in un metodo transnazionale degli accordi attraverso negoziati bilaterali, che di volta in volta potranno prospettarsi vantaggiosi. La sua idiosincrasia dichiarata per l'attuale assetto della Nato va nella stessa direzione. Un sorta di pachiderma che rischia di finire dormiente e inerte, a meno che i paesi europei non siano disposti a investire almeno il 2% del proprio Pil, fornendo così il grosso delle truppe e delle armi schierate nel continente. E qui si innesta l'altro tema di stretta e delicata attualità: che politica estera per l'America di Donald II? Al primo Trump va riconosciuto il merito di aver in qualche modo sfiatato, con gli accordi di Abramo dell'ormai preistorico 2020, il pentolone bollente dei rapporti fra Israele e i limitrofi paesi arabi, ponendo così parziale riparo ai guasti della politica estera di Obama e del suo sostanziale disimpegno rispetto a un quadrante geopolitico in quel momento particolarmente martoriato. E dal quale gli Usa del premio Nobel alla Pace «sulla fiducia» si defilarono, certificando l'inizio del proprio declino come paese guida del mondo pacificato. Cosa di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze. Difficile chiedere una brusca inversione di rotta all'isolazionista e nazionalista 47esimo inquilino della Casa Bianca. E però a quel suo «fermerò le guerre», urlato al popolo osannante di Palm Beach nella notte del trionfo, si guarda con molta speranza e non poca inquietudine. L'Ucraina, intanto: dopo due anni e mezzo di guerra, costata finora oltre 500 miliardi di dollari, una pace imposta a Kiev con la rinuncia alle fette di territorio già finite in mano russa in cambio di una garanzia di sicurezza, stabilità e sostegno, potrebbe solleticare ulteriori future mire espansioniste in quel Putin non proprio acerrimo nemico del neopresidente a stelle e strisce. E Netanyahu? I succitati accordi di Abramo continueranno a ingiallirsi negli archivi della storia se non dovesse accontentarsi di aver decapitato Hamas e indebolito Hezbollah. Saprà Trump convincere il bellicoso leader israeliano a scendere a più miti consigli?
Resta infine il leader che più interessa agli americani. Non quello dei record (il primo a mettere insieme due mandati non consecutivi, il primo con una condanna penale sul groppone, il più anziano al momento dell'elezione), ma quello delle scelte di politica interna. Gradito contemporaneamente alle grandi major e al polmone rurale del Paese, deve ora conquistare la middle cass, quella più eterogenea e variegata, quella che credeva nella speranza/illusione Kamala. Dall'aborto al possesso delle armi, dalla produzione energetica al cambiamento climatico («Una bufala», Donald dixit), fino alla stessa pena di morte, tutti temi che tornano prepotentemente al centro del dibattito sociale. Ma Trump dovrà anche conciliare la sua integralista politica anti immigrazione – tema su cui le sinistre prendono batoste ormai ad ogni angolo terracqueo - con un tessuto demografico sempre più irreversibilmente spinto verso la multirazzialità. Insomma, passi per le americanate da campagna elettorale, ma battutacce come quella di «Porto Rico isola spazzatura» del podcaster Tony Hinchcliffe durante un comizio o la pena di morte per ogni migrante che uccide un cittadino americano sono uscite che mal si conciliano con la guida di un Paese che si spera ancora illuminato come gli States. Che possono tornare grandi. Purché non lo facciano a scapito di quella ancora ampia fetta del globo che ad essi guardano sempre come a un modello di democrazia reale, libera, equilibrata. E, speriamo, pacificatrice.
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