Il tema della scuola è ancora all’ordine del giorno dell’agenda nazionale, siamo infatti tutti convinti che il nostro futuro passa attraverso le griglie della scuola. Stessa consapevolezza era ancor più presente nel primo Novecento e, soprattutto, negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale. La classe dirigente del tempo e personaggi, come il nostro Giovanni Gentile, filosofo e pedagogo fra i più importanti del Novecento, si rendevano infatti conto della necessità di una riforma della scuola che fosse in linea con lo spirito del tempo. Stessa consapevolezza agitava Benito Mussolini, il nuovo capo del governo, tanto da fargli scegliere come suo ministro della istruzione pubblica un intellettuale che, non dimentichiamolo, fino ad allora aveva mostrato una sostanziale indifferenza nei confronti del fascismo. Gentile, come è noto, aderì al fascismo con una inattesa lettera al Duce del 31 maggio 1923, nella quale, dichiarava, che pur essendo un convinto liberale si era «persuaso perché fra i liberali d'oggi e i fascisti che conoscono il pensiero del Suo fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve schierarsi al fianco di Lei». La nomina di Gentile a ministro voleva essere, in ogni caso, un segnale preciso dell’interesse che il nuovo «capo del governo» assegnava alla scuola, un interesse che andava, in quel momento, e lo si sarebbe visto attraverso i provvedimenti assunti, anche al di là dello specifico interesse di parte. Non è un caso, infatti, che il 27 aprile 1923 Gentile, a cui tacitamente era stata data carta bianca, mettesse in campo una riforma della scuola che affondava le sue radici nel più avanzato dibattito sul tema. Tale fu, infatti, la riforma Gentile tanto è vero che essa ebbe a trarre i propri contenuti qualificanti dalla proposta che, appena due anni prima, Benedetto Croce, da ministro della pubblica istruzione dell’ultimo governo Giolitti, aveva già abbozzato trovando anche accoglienza in un non estimatore di Giolitti, come lo era stato il socialista Gaetano Salvemini. Non è un caso che lo stesso Salvemini venisse chiamato in causa da Gentile in occasione del dibattito parlamentare del 1925 nel corso del quale, non più ministro, difese l’impianto complessivo della sua riforma contro gli attacchi di una parte non secondaria dell’etablissement fascista. Entrando nel merito, ricordiamo che sul piano procedurale la riforma Gentile sia stata introdotta a mezzo di decreti legge utilizzando i pieni poteri previsti dalla legge 3 dicembre 1922, ciò significa che non passò al normale vaglio del Parlamento, che ne avrebbe potuto approfondire i relativi aspetti. La procedura adottata fu giustificata dal fatto che, si disse allora, il dibattito c’era già stato e si era svolto al di fuori del Parlamento… un dibattito approfondito e lungo visto che le tematiche affrontate erano già state ampiamente discusse già prima della guerra. Per il fascismo, l’approvazione della Riforma fu considerata un successo: il regime poteva infatti attribuirsi il merito di avere tradotto in pratica quelle idee che, fino ad allora, non erano riuscite ad andare oltre le generiche dichiarazioni di principio. L’obiettivo complessivo della nuova riforma fu quello dell’allargamento della platea della gioventù studiosa – l’elevazione dell’obbligo scolastico a 14 anni era proprio diretto a questo scopo – ma anche di dare rigore all’ordinamento scolastico dal punto di vista della sua struttura amministrativa, quest’ultima peraltro organizzata in maniera rigorosamente gerarchica. Tema che sarebbe stato oggetto di molte critiche. A questo si aggiungeva quella che possiamo definire una ribadita severità degli studi, ciò che si realizzava attraverso una precisa definizione sia dei percorsi formativi che dei programmi scolastici. La riforma fu globale, i provvedimenti assunti riguardarono infatti tutti i gradi dell’istruzione dall’ordinamento delle scuole materne a quello universitario con una scelta ideologica ben precisa a favore della cultura umanistica, che assunse un ruolo centrale nella formazione scolastica, tirandosi così dietro l’accusa di avere penalizzato in questo modo la cultura scientifica. Al centro dell’intero sistema formativo veniva infatti collocato il liceo classico a cui la riforma attribuiva il ruolo di struttura elitaria – gli studenti del classico erano da considerare «aristocratici, nell'ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori», evidenziava il filosofo – ma veniva anche istituito il cosiddetto liceo scientifico, una sorta di fratello povero rispetto al classico. La riforma si preoccupava inoltre della formazione di quegli insegnanti necessari alla scuola primaria e in quest’ottica si mossero gli istituti magistrali, vocati alla formazione di questi ultimi. In poche parole, la scuola di Gentile puntò a realizzare un sistema scolastico molto selettivo e meritocratico, non per nulla veniva infatti introdotto l’esame di Stato al termine del percorso della scuola secondaria superiore. All’esame di Stato veniva data una funzione centrale, tanto da essere regolamentato come strumento estremamente severo. Esso infatti doveva svolgersi davanti ad una commissione esterna alla scuola di provenienza dei candidati, in base ad apposite prove predisposte a livello nazionale. Caratterizzava l’insegnamento anche la introduzione dell’insegnamento della religione a livello primario. Questo soddisfaceva la domanda espressa dalle componenti cattoliche nel Paese che premevano per superare gli antichi steccati imposti dalla cultura laicista presente nelle classi dirigenti italiane. Possiamo pensare che la sua introduzione nei programmi scolastici abbia contributo a spianare la strada alla conclusione di quel Concordato fra Stato e Chiesa del 1928 che sarebbe stato un fiore all’occhiello per il Regime. Bisogna però aggiungere che, al di là del soddisfacimento della domanda proveniente dal mondo cattolico, lo stesso Gentile aveva operato quella scelta perché convinto del ruolo altamente positivo che l’insegnamento della religione avrebbe potuto esercitare nella formazione della gioventù italiana. Egli infatti riteneva che l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole elementari dovesse essere considerato «fondamento e coronamento» dell'istruzione primaria. Questo il quadro generale, il cui risultato sembrò soddisfare Mussolini, tanto che, almeno in un primo tempo, forse non rendendosi conto dei suoi contenuti, definì quella di Gentile «la più fascista delle riforme». Un giudizio affrettato che avrebbe ben presto rivisto perché non mancò molto a rendersi conto che il siciliano Gentile aveva, in realtà, costruito un impianto troppo laico e sicuramente non del tutto in linea con l’idea fascista. Dal giudizio entusiasta il duce passa infatti a definire, con un certo cinismo, la stessa riforma «un errore dovuto ai tempi e alla forma mentis dell'allora ministro». Un errore che imponeva, come di fatto avvenne, l’urgente necessità di mettere mano a tutta una serie di aggiustamenti e modifiche. Un compito che venne affidato a Pietro Fedele, un noto storico molto vicino ai desiderata del Vaticano, chiamato a succedergli alla guida del ministero.