«Le stragi hanno letteralmente cambiato la mia vita, se non ci fossero state avrei proseguito il percorso da giudice civile scelto da ragazza. Invece ho pensato ci potesse essere un altro modo per dare una mano a quei colleghi arrivati in Sicilia da tante regioni d’Italia nel 1992. C'era questo grosso slancio, si capiva che eravamo in guerra, non avevamo neanche 30 anni e volevamo aiutare questo Paese ferito». Così Lia Sava, da un mese e mezzo procuratrice generale di Palermo, originaria di Bari, racconta il clima del dopo stragi coinciso con il suo ingresso nella magistratura in un’intervista pubblicata sul sito del centro studi Pio La Torre.
E sulle verità parziali dice: «Mancano dei pezzi che potrebbero riguardare i cosiddetti concorrenti esterni, cioè entità esterne a Cosa nostra che potrebbero aver dato un ausilio alla realizzazione». Le sentenze del Capaci bis in Cassazione e quelle passate in giudicato del Borsellino quater hanno detto, continua Lia Sava, «che ci sono ancora delle piste da esplorare. Le procure di Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria, Firenze dovranno cercare la verità a 360 gradi, sotto l’egida della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo voluta proprio da Falcone. Uno dei grandi collaboratori di giustizia, Antonino Giuffrè, riferendosi alla fase antecedente alle stragi parla di 'tastata di pusò (tastata di polso, ndr) cioè una sorta di sondaggio che Cosa nostra farebbe tra favorevoli e contrari a un’esecuzione in determinati ambienti: si parla di servizi segreti e massoneria deviati, imprenditoria collusa con la mafia... In queste dichiarazioni generiche ci sono spunti per proseguire le indagini».
La procuratrice capo affronta vari temi, come il problema del pagamento del pizzo e il ritorno dell’abigeato: «Si paga ancora tanto e troppo, questo significa che nonostante l’impegno dei singoli e delle associazioni qualcosa non ha funzionato. Occorre far capire alle persone che se denunci lo Stato ti accompagna con una legislazione all’avanguardia e che lo Stato non lascia soli. E poi, oltre al recupero dei detenuti dobbiamo dare un lavoro alle loro famiglie, aiutare mogli e figli di quelli che arrestiamo, renderli autonomi, altrimenti si crea un legame perverso, malefico e fetido tra la mafia e quella famiglia. Non basta mandare in carcere, dobbiamo sottrarre ai quartieri il consenso della mafia. Il fenomeno dell’abigeato, cioè il furto di bestiame, che si pensava fosse scomparso, in effetti esiste tuttora e si è rafforzato dietro l’egida di cosa nostra. La crisi economica fa tornare in auge delle forme di approvvigionamento della ricchezza che la mafia non aveva accantonato, ma che adesso realizza in maniera più pregnante sfruttando la crisi».
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