Lunedì 23 Dicembre 2024

I franchi tiratori del Pd bruciano prima Marini e poi Prodi: non c'è alternativa, è Napolitano-bis

Sabato 20 aprile 2013: Giorgio Napolitano eletto per la seconda volta, qui tra i presidenti della Camera Laura Boldrini e del Senato Pietro Grasso

Questa è la dodicesima puntata della serie di articoli dedicati alle precedenti elezioni del presidente della Repubblica Esattamente come sette anni prima. Anzi peggio. Nel 2013 le urne tradiscono le speranze del centrosinistra: ma se almeno Prodi nel 2006 era riuscito a strappare una risicata vittoria che gli aveva consentito di andare a Palazzo Chigi e di far eleggere Napolitano al Quirinale con i soli voti della maggioranza, nelle elezioni del febbraio 2013, Bersani fa peggio e non ha i numeri per poter dare le carte. Nessuno ha previsto il boom dei Cinquestelle che portano in Parlamento 163 eletti che non vogliono scendere a patti con nessuno. Ma l’elezione del nuovo capo dello Stato è una grana da risolvere in fretta. Il primo tentativo fatto da Bersani è di trovare un accordo con Forza Italia. Bersani e Berlusconi, accompagnati dai vice Enrico Letta e Angelino Alfano, si incontrano a Montecitorio il pomeriggio del 9 aprile. Il segretario del Pd presenta al Cavaliere una rosa di nomi, tutti ad alto coefficiente di digeribilità per il centrodestra: Massimo D’Alema, Giuliano Amato e Franco Marini. Nel frattempo i Cinquestelle indicono le loro «quirinarie»: il loro candidato sarà Stefano Rodotà, giurista di sinistra ed ex parlamentare del Pds. Ma i vertici del Pd non si fanno tentare. Sommando i voti Pd e M5s si riuscirebbe anche a far eleggere Rodotà, ma poi - si chiedono a via del Nazareno - che succederebbe? Bersani e Berlusconi si incontrano nuovamente, stavolta a casa di Enrico Letta a Testaccio: decidono che l’uomo giusto da votare è Franco Marini. Tra i parlamentari Pd c'è nervosismo e nella riunione dei grandi elettori quasi un terzo si dissocia. Ma l'anziano politico abruzzese (ha 80 anni) è convinto di farcela lo stesso: sulla carta i voti ci sono (i partiti che lo sostengono ne hanno 739, ne bastano 672), e lui, accompagnato dalla moglie, va a ordinare tre vestiti blu da Cenci, il negozio di abbigliamento nei pressi della Camera dove si servono parlamentari e ministri. Si arriva così al 18 aprile, data in cui ricorre la strepitosa vittoria della Dc nelle elezioni del 1948. Ma il vecchio democristiano convinto di essere già presidente prende uno schiaffo che nessuno immaginava: gli mancano 218 voti, si ferma a quota 521. Altro che elezione con i due terzi. Meglio soprassedere. Nella seconda votazione, per evitare figuracce, il Pd sceglie la scheda bianca. Il giorno dopo, la mattina del 19 aprile, Bersani, compie un’inversione a U e propone di votare Romano Prodi dal quarto scrutinio. È un azzardo sul filo dei numeri, ma l’assemblea esulta, tutti applaudono, e nemmeno si fa la votazione per ratificare la sua candidatura. Il professore, che si trova nel Mali, in missione per conto delle Nazioni Unite, ringrazia. Tra le telefonate ricevute anche quella di D’Alema, che però gli fa uno strano discorso: «La tua candidatura va benissimo, ma forse decisioni del genere andrebbero prese coinvolgendo i massimi dirigenti del partito». Prodi mangia la foglia e telefona alla moglie: «Flavia, non ti preoccupare, presidente della Repubblica non ci divento». L’ex presidente del Consiglio scende in pista al quarto scrutinio: sulla carta ci sono 496 voti, ne servono altri otto per raggiungere il quorum. Bersani è convinto di ottenerli da qualche grillino dissidente e da qualche seguace di Monti (che ha dato indicazione di non votare Prodi). Ma è un bagno di sangue: Prodi prende solo 395 voti. In 101 hanno tradito. Il Pd è nel caos più totale. Bersani annuncia che si dimetterà subito dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato. A questo punto tutti gli sguardi si voltano verso il Quirinale. Sabato 20 Bersani sale al Colle per chiedere al presidente in carica, che aveva già preparato il trasloco, di ripensarci. La stessa richiesta viene fatta a Napolitano da Berlusconi, da Monti, persino dai leghisti di Maroni. Nel Pd miracolosamente scompaiono i franchi tiratori. Il 20 pomeriggio Napolitano viene rieletto: 738 voti. E può cominciare il secondo mandato di «re Giorgio». Qui sotto le puntate precedenti      

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