Questa è la terza puntata della serie di articoli dedicati alle precedenti elezioni del presidente della Repubblica
L’elezione del 1948 era stato solo l'antipasto. Le lotte intestine nella Dc salgono di intensità nel 1955, l’anno in cui arriva al Quirinale Giovanni Gronchi sull’onda di una vera e propria congiura di palazzo.
L’elezione di questo toscano di Pontassieve, fondatore del partito popolare ed ex aventiniano, ha del rocambolesco. De Gasperi non c'è più, è morto da un anno: la Dc è nelle mani di Amintore Fanfani, cattolico di idee quasi socialiste in economia ma tradizionalista in fatto di religione. Contro di lui è schierata la corrente di destra «Concentrazione democratica» di Andreotti e Gonella. Einaudi è stato un ottimo presidente, ma alla scadenza del settennato, nessun partito chiede che venga rieletto. Lui ci rimane un po’ male, ma si adegua. E si prepara a occuparsi a tempo pieno alla sua tenuta agricola di Dogliani, dove produce un ottimo barolo.
Fanfani, spalleggiato dal presidente del Consiglio Scelba, punta sul presidente del Senato Cesare Merzagora, ex banchiere, ateo dichiarato ma eletto come indipendente nelle liste della Dc. Spera che in virtù di queste caratteristiche Merzagora venga considerato con favore dalle sinistre. Ma si illude: Togliatti e Nenni pensano ad altre mosse per rientrare in gioco. Ma anche la destra Dc non vuole Merzagora. Una mattina, Andreotti va da Merzagora nel suo studio e gli fa il seguente discorso: «Presidente, non si candidi e converga invece su Einaudi. Se Einaudi non ce la dovesse fare sarebbe lei il candidato naturale e tutti la voterebbero». Alla fine anche la destra Dc dice sì alla sua candidatura. Ma era un sì falso. Andreotti e compagni avevano già deciso di tradire il candidato di Fanfani nel segreto dell’urna.
Il 28 aprile, alla prima votazione, Merzagora subisce una cocente sconfitta. Nel pomeriggio le cose peggiorano: Merzagora è stabile, ma Gronchi incrementa mentre tutte le opposizioni scelgono la scheda bianca, come per far sapere che sono pronte a entrare nella partita. I presagi della mattina si trasformano in un incubo serale per Fanfani, quando al terzo scrutinio Gronchi scavalca Merzagora (281 contro 245). È la fine del suo candidato.
Si assiste in quelle ore a un’incredibile (con il senno di poi) saldatura tra la destra democristiana di Andreotti e la sinistra di Nenni e Togliatti, che decidono di sostenere Gronchi. Comunisti e socialisti vogliono essere determinanti nella scelta del capo dello Stato, ma danno vita a un’alleanza paradossale, visto che qualche anno dopo Gronchi sarà l'artefice della nascita del governo Tambroni, appoggiato da Dc e missini. Ma allora, in quell'aprile del 1955, il toscano Gronchi era un fautore dell’apertura a sinistra, era amico del presidente dell’Eni Enrico Mattei e aveva posizioni da neutralista anti-Nato. Fanfani prova a giocarsi le ultimissime carte, ma sa che l'impresa è disperata. A mezzanotte va da Gronchi con il vertice della Dc e gli chiede di rinunciare. Gronchi si arrabbia: «E allora perché mi avete fatto eleggere presidente della Camera? Mi ritiro solo se il partito dice ufficialmente che sono totalmente inidoneo».
Fanfani va a letto con un brutto presentimento. La mattina dopo la situazione precipita: Gronchi, che doveva farsi sentire in mattinata, è sparito e non risponde al telefono. Si fa vivo solo alle 11 e un quarto e dice che non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che gli è stato chiesto. Ai direttivi dei gruppi Dc Fanfani è costretto a cedere su tutta la linea: e nel pomeriggio del 29 aprile Gronchi viene eletto con la schiacciante maggioranza di 650 voti su 833. Lo votano i parlamentari della maggioranza, socialisti e comunisti, ma non Saragat, per il quale è un pericoloso populista (lo chiama «il Peron di Pontedera»). Nel suo discorso di insediamento Gronchi non fa nulla per smentire la sua fama di quasi marxista. Chiede che «le masse lavoratrici» entrino nella macchina dello Stato e dice che bisogna fermare lo strapotere delle multinazionali. Socialisti e comunisti lo acclamano, l'ambasciatrice americana Claire Luce lascia platealmente la tribuna degli ospiti, Scelba, seduto al banco del governo, non batte le mani, e il comunista Pajetta per sfotterlo gli fa portare da un commesso un bicchiere di Cynar, l’amaro antistress.
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