Il viaggio del nostro editorialista Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, attraverso i temi variegati della giustizia italiana, continua con questa terza puntata. Dopo il dialogo con Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica (pubblicato lo scorso 21 settembre) e Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato Vaticano (pubblicato lo scorso 24 ottobre), è la volta di Marta Cartabia. Quello dell’attuale ministro della Giustizia nel governo Draghi è peraltro anche uno dei nomi attorno cui ruota il dibattito per la successione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica.
(Testo elaborato da Andrea Merlo)
Il mio invito a Marta Cartabia era stato preciso. Non una proposta di intervista al Ministro della Giustizia, da parte di un giurista prestato ai media, ma un dialogo tra colleghi. Perché questo è infatti: anzitutto una studiosa dal curriculum internazionale. Già presidente della Corte Costituzionale. La prima donna, peraltro. Poi da febbraio 2021, Guardasigilli del Governo Draghi. Ma non è di questo che parleremo, in un pomeriggio palermitano insolitamente uggioso. Né di riforme, né di Recovery Fund, né delle mille urgenze del presente, che molto spesso chiamano in causa il Dicastero di via Arenula. Per un’ora, seduti uno di fronte all’altra, poco lontani dal mare di Mondello, dialoghiamo di giustizia che ricuce; della Repubblica che si rialza dal cratere di Capaci; della funzione della pena e di un libro, L’insostenibile leggere dell’essere di Milan Kundera, che scopro essere una passione comune. Questo diventa allora il bandolo, per far iniziare la nostra conversazione-
Marta Cartabia. È un libro meraviglioso, perché si affaccia sulla realtà attraverso uno sguardo che contempla l’imprevisto, un elemento che sfugge al controllo nelle dinamiche umane. Il punto centrale sta nel passaggio in cui Tereza rivela a Tomáš che non c’è nulla di necessitato. Anche il loro amore «Es könte auch anders sein», «poteva benissimo essere altrimenti». Un grande choc per il protagonista, che lo porta a rivedere tutte le certezze di cui si è nutrito fino ad allora. Di qui la constatazione che c’è molto di imprevedibile anche nella vita. Io mi riconosco molto in questa impostazione di pensiero che contempla sempre un elemento di apertura, di non ineluttabilità. ineluttabilità. L’idea che «Es muss sein» – per dirla ancora con Kundera –, l’idea cioè che le cose debbano andare necessariamente in un certo modo porta in sé una radice di violenza, che può facilmente tracimare in oppressione, perché non prevede margini per il dissenso. Ecco, l’essere esposti alla possibilità di «essere altrimenti» dispone all’apertura, alla possibilità, all’oltre se stessi. Diciamola con Shakespeare: «ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia, Orazio»
Costantino Visconti. Sottoscrivo. Nello sviluppo del romanzo, Kundera è molto bravo a mostrare quello che lei dice sui destini individuali e collettivi. In un preziosissimo articolo apparso sul settimanale Review, Francesco Piccolo incornicia il passaggio in cui Tomáš rifiuta prima di sottoscrivere un appello a favore del regime comunista e poi l’appello contrario dei dissidenti, dicendo che non firma «lettere scritte da altri». Il rifiuto di Tomáš ci ricorda che anche quando stiamo dalla parte giusta e con le migliori intenzioni dobbiamo guardarci bene dall’assumere atteggiamenti uguali a quelli dei nostri avversari. Specie quando in nome delle idee che propugniamo chiediamo agli altri di conformarsi in modo fideistico e acritico, senza lasciare spazio al dissenso. Spero di sbagliarmi, ma io oggi vedo bagliori di autoritarismo ben intenzionato, qua e là.
M.C. Quest’episodio di Tomáš ci dice quanto siano importanti i gesti autentici che attingono alla coscienza individuale. Per certi versi, oggi anche più di prima, quando le vicende della storia erano tali da rendere paradossalmente più facile capire da che parte stare. Oggi la faccia del conformismo non è più quella cattiva che ci opprime, ma si mimetizza e si confonde anche dietro buone intenzioni. Ci troviamo al cospetto di forme di potere meno riconoscibile, con le quali ognuno deve confrontarsi.
C.V. Tanto da studiosa, quanto da ministra, lei ha sempre mostrato interesse per le forme di esercizio della giustizia che riparano, più che per quelle che puniscono. Una giustizia che ricuce i rapporti spezzati.
M.C. La Giustizia, anche quando ha in mano la spada, ha sempre il compito di comporre un conflitto. Questo concetto è espresso straordinariamente dal giudizio di Re Salomone, che ha la spada e minaccia di tagliare a metà il bambino, perché ci sono due madri che se lo contendono. È evidente che il suo scopo non è quello di uccidere il bambino, ma di riconoscere la vera madre. Dunque, anche quando la giustizia deve ricorrere alla forza, questa non è fine a sé stessa, ma deve tendere sempre a sanare le fratture. A ricucire lo strappo provocato dal reato, a salvare l’uomo e la città. Occorre sempre prima una parola di giustizia, per far iniziare poi un’altra storia, per ricalcare le parole di un altro autore a me caro, il filosofo Paul Ricoeur.
C.V. Non è facile raccontare quest’idea di giustizia. Può sembrare un’utopia. Noi all’Università di Palermo offriamo anche una materia sulla Giustizia riparativa e i conflitti nel Corso di relazioni internazionali a Scienze politiche che ha molto successo tra gli studenti: mi impegno ora con lei a rilanciare, anche verso un’utenza più larga e non solo studentesca, la formazione nel campo della RJ e della mediazione in particolare. Ma le capita – specie in questa sua nuova veste politica – che con queste premesse sia poi presa un po’ per visionaria?
M.C. (sorride). Non so cosa pensino «gli altri». Quello che posso dire è che queste mie riflessioni sono maturate a partire dallo studio di fatti concreti, dalla conoscenza ad esempio di esperienze molto importanti di giustizia riparativa. La giustizia riparativa è nata dall’esperienza, non da teorie o ideali astratti. Forse se non ci fossero nella storia degli esempi solidi di riferimento, potrei apparire come una visionaria. Ma è la storia ad averci mostrato cosa è successo nel Sud Africa del post Apartheid, con la Commissione Verità e Riconciliazione. La giustizia riparativa è un percorso a cui sempre più Paesi guardano con interesse. La Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 3 ottobre 2018 la definisce così: «ogni processo che consente alle persone che subiscono un pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale». È la giustizia dell’incontro. È la giustizia che nasce dall’incontro umano: quanto di più imprevedibile – e allo stesso tempo decisivo – in ogni vicenda umana.
C.V. La giustizia che non è affidata alle Erinni vendicative e rabbiose, indisponibili a qualsiasi dialogo, ma la giustizia che passa attraverso l’istituzione del primo tribunale, l’Areopago, voluto dalla dea Atena. Lei ha più volte richiamato la necessità, attuale e stringente, che le Erinni si trasformino in Eumenidi, benefiche e benedicenti, titolo della tragedia di Eschilo, che lei è venuta anche a vedere al teatro di Siracusa la scorsa estate. Possiamo dire che per la nostra Repubblica è questo, insieme, il suo impegno e il suo augurio per l’anno che verrà?
M.C. Posso dire che in questa direzione sto lavorando, mettendo a disposizione tutta la mia professionalità e le mie energie. Per una giustizia, che prova a risanare, a ricucire, a rieducare, a ridare una seconda possibilità. E perché ciò avvenga, ad esempio, è necessario lavorare, affinché le carceri possano non essere più un luogo di inutile sofferenza e di tempo vuoto, ma davvero un momento per dare attuazione a quella funzione rieducativa della pena, in cui credevano i nostri padri costituenti, che avevano sperimentato il carcere. E proprio per dirla con uno dei costituenti, Piero Calamandrei, «bisogna aver visto». Da questo punto di vista, è stata un’esperienza molto significativa aver visitato insieme al Presidente del Consiglio il carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo che la stampa aveva mostrato «l’orrenda mattanza» avvenuta. Quando ho proposto al presidente Draghi di andare, per dare un segnale della nostra vicinanza, ha accettato immediatamente e poi mi ha ringraziato. È stato un gesto importante. Ora devono venire i cambiamenti, a cui stiamo lavorando, perché possano migliorare le condizioni detentive. Il mondo del carcere non è altro da noi. In troppi parlano di carcere senza averlo mai conosciuto.
C.V. Lei è venuta a Palermo per i trent’anni della Dia, è stata in Aula bunker e lì ha incontrato gli studenti. È un luogo simbolo, quello. Denso. Da un lato, è stato il teatro di un grande successo dello Stato contro la mafia, il maxiprocesso a Cosa nostra. Dall’altro, rinvia immediatamente alle figure dei giudici Falcone e Borsellino, che di quel processo furono gli artefici e la cui uccisione – nella stagione delle stragi – resta una ferita mai sanata. Che messaggio ha voluto dare agli studenti?
M.C. Li ho invitati a soffermarsi sull’immagine terribile del cratere di Capaci. Da lì, da quell’abisso dove sembrava che tutto dovesse finire, è rinata invece una Repubblica più forte. È una delle tante contraddizioni di questa terra: teatro delle più gravi stragi di mafia e della più forte risposta dello Stato contro le mafie. Dopo il ’92, voi siciliani siete rinati e diventati più forti. Quando vengo in Sicilia, sono ogni volta colpita da questi contrasti, in tutto. Da un lato, ci sono i muri scrostati dei palazzi e a volte anche il degrado; dall’altro, luoghi di incantevole bellezza, sorti dalle mani dell’uomo, oltre alla bellezza ambientale. Opposti che contraddistinguono, in generale, la condizione umana, ma qui sono più estremi. Come tutto.
C.V. Però, per restare al tema della lotta alla mafia, trovo che nel discorso pubblico ci sia qualche ritardo. Dopo via D’Amelio la mia generazione era distrutta. Vedevamo uno Stato prostrato e pensavamo a soluzioni estreme. Una speranza si è riaccesa poi con la nomina di Caselli e l’arresto di Riina. Ma proprio perché – come lei ha colto – veniamo dall’abisso, dobbiamo invece rivendicare la grande offensiva che siamo stati in grado di opporre alla mafia. Cosa nostra non può ancora dirsi sconfitta, ma i «corleonesi» sì e oggi è lo Stato ad essere più forte. Possiamo dire così: anche se la guerra non è vinta, abbiamo vinto grandi battaglie. Dobbiamo dirlo a gran voce, con orgoglio. Invece spesso si accredita l’immagine opaca di uno Stato sonnacchioso, poco vigile nel contrasto alla criminalità organizzata. Gli stessi operatori, forse anche per autolegittimarsi, alimentano una narrazione in cui le mafie la fanno ancora da padrone. Non dobbiamo commettere l’errore opposto, minimizzare il problema, che resta grave. Ma dobbiamo avere la capacità di pensare nuove fasi e di proiettarci verso nuove stagioni, altrimenti non resta che la rassegnazione.
M.C. Nessuna rassegnazione, come nessun trionfalismo. Non viviamo più, per fortuna, quei giorni drammatici di bombe e stragi, ma non dobbiamo trascurare forme diverse della criminalità organizzata. Che dobbiamo ad esempio tenere ben lontana dai fondi del PNRR, che stanno arrivando. Lo Stato ha gli strumenti, per contrastare con decisione e forza le mafie, sotto ogni veste. E lo facciamo. Probabilmente, bisogna valorizzarlo di più anche nella narrazione.
C.V. Pienamente d’accordo. Mi piace ricordare una sua recente conversazione con la senatrice a vita Liliana Segre, in cui lei applica alla giustizia le parole di Sant’Agostino a proposito del tempo: «se nessuno me lo chiede, lo so; se devo spiegarlo, non lo so più». Da collega studioso ne condivido lo spirito, ma – mi faccia passare la provocazione – il ministro non deve proporre una sua visione della giustizia?
M.C. Chi può dire con parole definitive cos’è davvero la Giustizia? Piuttosto tutti noi abbiamo molto chiara cosa sia l’ingiustizia. Tutti possiamo indicare casi di ingiustizia, di cui abbiamo fatto esperienza direttamente o indirettamente. Molto più complesso invece è provare a definire cosa sia la giustizia. Ma mi domando se sia davvero necessario imbrigliare in una definizione il viaggio verso una società più giusta, che è una meta sempre da raggiungere, sempre oltre. E torniamo all’inizio della nostra conversazione: dobbiamo escludere che esista un solo punto di vista. In ogni circostanza, è necessario esplorare tutto l’orizzonte del possibile: questo vale anche per il ministro, che deve essere sempre aperto al dubbio e disponibile all’ascolto di tutte le istanze provenienti dalle diverse componenti che concorrono al funzionamento della giurisdizione.
C.V. Chiudiamo con un consiglio letterario per i nostri lettori.
M.C. Riprendiamo in mano Les Miserables, di Victor Hugo: un’ avvincente vicenda umana, in cui si confrontano diverse idee di giustizia. Jean Valjean e il commissario Javert.
C.V. Postilla. Ho telefonato a Marta Cartabia la scorsa settimana, prima della pubblicazione di questo colloquio, perché la giustizia riparativa è stato il tema del vertice di Venezia dei ministri della Giustizia, sotto la Presidenza italiana.
M.C. I 47 Paesi hanno adottato la «Dichiarazione di Venezia», con impegni a sostenere l’accesso alla giustizia riparativa. Abbiamo riflettuto, condiviso progetti e difficoltà. Ma soprattutto abbiamo ascoltato esperti e testimoni: straordinaria la testimonianza di Albie Sachs, già giudice costituzionale nel Sud Africa del post Apartheid, dopo essere stato avvocato delle persone discriminate e per questo vittima anche di un attentato, in cui ha perso un braccio e un occhio. Ha raccontato l’incontro con l’uomo che aveva piazzato la bomba nella sua auto e ha spiegato il significato della «vendetta gentile», di cui parla nell’autobiografia. Racconta che mentre si trovava in ospedale, gli amici gli dissero «Albie, ti vendicheremo». E lui rispose: «è questo ciò per cui combattiamo? Un Sud Africa pieno di gente senza braccia e senza occhi?». Ha dialogato con Mario Calabresi, a cui la madre Gemma ha insegnato da subito a coltivare i valori della riconciliazione e non dell’odio, dopo l’omicidio del padre. Testimonianze vive, potenti, che toccano chi le ascolta, come il racconto della senatrice a vita Liliana Segre, quando descrive il momento in cui decise di non raccogliere da terra la pistola del gerarca delle SS in fuga e dice: «in quel momento sono diventata la “donna libera che sono ora».
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