Come garantire un presidente della Repubblica «autorevole» e un governo altrettanto autorevole, che arrivi al 2023. È questo il grande nodo del Quirinale, fotografato da un king maker del passato come Walter Veltroni. «Ricordo che a casa mia incontrai Fini e Casini e discutemmo di Carlo Azeglio Ciampi»: era il 1999 e Ciampi fu eletto alla prima votazione «per la sua autorevolezza» ma anche perché «chi aveva responsabilità politica era in grado di garantire il supporto dei gruppi parlamentari», ricorda l’allora segretario dei Ds, che viene oggi citato tra i possibili candidati. Ma il più grande rischio a gennaio, quando si voterà per eleggere il successore di Sergio Mattarella, è proprio la mancanza di leader in grado di blindare i voti, in un Parlamento balcanizzato. Questo il timore che accomuna sia chi lavora per portare al Colle Mario Draghi, che continua a non sbilanciarsi sul proprio destino, sia chi vuole creare consenso attorno a un altro nome e blindare la permanenza del premier a Palazzo Chigi fino a fine legislatura.
Lo spauracchio è ricordo di due annate nere: nel 1964 ci vollero 21 scrutini per eleggere Giuseppe Saragat, nel 1992 Oscar Luigi Scalfaro arrivò al sedicesimo voto. Chi - nonostante la ferma volontà contraria dell’interessato - continua a sperare nella rielezione di Sergio Mattarella, confida che non si arrivi a tanto e che, in caso di stallo conclamato, sia l’attuale presidente ad accettare la rielezione. Del resto, fa notare un senatore Pd, anche Giorgio Napolitano aveva detto no al secondo mandato. Con un Parlamento fuori controllo come l’attuale - con centinaia di «grandi elettori» non iscritti ai grandi partiti, tra centristi e gruppo misto - diventa rischioso, sottolinea un’altra fonte Dem, anche esporre Draghi al voto delle Camere, dal momento che rischierebbe di diventare bersaglio dei franchi tiratori: se bocciato nel segreto dell’urna dalla sua larga maggioranza - è il ragionamento - diventerebbe difficile per Draghi anche restare a Palazzo Chigi.
Gli occhi sono puntati sui tanti deputati e senatori che temono la fine anticipata della legislatura (e la perdita del diritto alla pensione) e sul corpaccione dei 233 M5s (erano 338, nel 2018). Giuseppe Conte li ha rassicurati che non intende proporre Draghi al Quirinale per poi andare a elezioni anticipate. Ma, tra le righe di un’intervista a un quotidiano olandese, l’ex premier sembra continuare a porre proprio Draghi in cima ai papabili: «E’ una risorsa per il Paese», afferma, «il M5s non cerca di trasferirlo da Palazzo Chigi al Colle ma non c’è dubbio che serva qualcuno di alta morale, capace di raggiungere l’unità nazionale». Sarà però il centrodestra, ribatte Antonio Tajani, a condurre i giochi proponendo «un solo candidato». Un’affermazione che cozza col fatto che Fdi punta al voto anticipato mentre lo schema di Fi è Silvio Berlusconi al Colle e Draghi premier fino al 2023.
L’ex presidente della Bce deve restare a Palazzo Chigi anche nella prossima legislatura, si spinge oltre Carlo Calenda. Quello che non deve succedere, avverte Giorgia Meloni, è che l’elezione al Quirinale di Draghi instauri un «presidenzialismo di fatto», come ipotizzato da Giancarlo Giorgetti: «Non si può pensare che il Parlamento non conti più niente». Sul punto concorda Veltroni, secondo il quale bisogna - anche con una legge elettorale condivisa - tornare a una «democrazia sana», non solo guidata da governi politici e priva di ruoli costruiti «de facto», fuori dalle regole. Ma dalla prossima legislatura. Fino al 2023 Draghi deve restare a Chigi a completare la sua sfida (auspicio, questo, assai diffuso nel Pd) o, spiega Veltroni, al suo posto deve insediarsi una personalità altrettanto autorevole.
Chi si propone di aver gran voce in capitolo sui giochi per il Colle è Matteo Renzi, che accusa il Pd di provare a dividere Italia viva (smentisce le voci di una pattuglia di transfughi pronta a lasciare i suoi gruppi) e avverte che il nome nascerà solo dalla ricerca di una larga condivisione. Ma il timore dei Dem è che Iv possa giocare di sponda con la destra. Su quali nomi? Continuano a farsi quelli di Giuliano Amato o Pier Ferdinando Casini (poco graditi al M5s). Lo stesso Veltroni viene citato tra i papabili nel centrosinistra, oltre a Paolo Gentiloni e, nel centrodestra, Marcello Pera. Ma cresce anche la spinta ad avere finalmente un presidente donna. Calenda cita Marta Cartabia, mentre nel Pd si fanno nomi come Anna Finocchiaro o, meno quotate, Roberta Pinotti o Rosy Bindi che, con «serenità», commenta: «Difficilmente accadrà».
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