«Siamo ancora in tempo per ripensare le nostre città. Altrimenti saremo condannati a subire eventi come quelli a cui stiamo assistendo. Saranno sempre più severi e per proteggerci non possiamo pensare di smettere di vivere restando a casa»: Maurizio Carta, urbanista e docente alla facoltà di Architettura di Palermo, vede nelle alluvioni recenti a Palermo e Catania un segnale di non ritorno. E invoca un cambio di mentalità politica e progettuale partendo da un dato di fatto: «Stiamo attraversando una metamorfosi strutturale del modello climatico e del rapporto fra territorio e clima. Si è deformato l'equilibrio tradizionale del “Mediterraneo mare placido”. Ormai è cambiato tutto e dobbiamo cambiare anche le nostre città».
Parlare di prevenzione sembra provocatorio adesso. Ma cosa si può fare per evitare che le alluvioni mettano di nuovo in ginocchio le nostre città?
«Non c'è dubbio che sulla prevenzione siamo intempestivi. Ma bisogna ugualmente pensare in termini di prevenzione. Possiamo mitigare e fronteggiare gli eventi climatici dei dei prossimi anni».
Cosa serve?
«Partiamo da una premessa. In Sicilia abbiamo centri abitati che applicano un modello urbanistico della metà del Novecento, quando si pensava a un sistema antropocentrico in cui l’uomo, con arroganza predatoria, pensava di trasformare la natura prendendosi ciò che gli serviva. C’è stata una pianificazione urbanistica che puntava solo a espandere. Si è cementificato e asfaltato rendendo impermeabili i terreni e creando barriere. Ma l’acqua quando ha un ostacolo lo aggira. Con l’acqua le nostre città in passato convivevano, ora invece l’acqua scorre senza trovare un terreno che la assorba e così si ingrossa e distrugge».
Come si può ricostruire l’equilibrio rotto dalla cementificazione?
«Si deve interrompere il consumo di suolo improduttivo, parassitario. È vero che al Sud è più difficile perché mancano i diritti dell'abitare: ci sono persone senza casa, senza ospedale di prossimità. Ma fermare il consumo di suolo significa trasformare la città in modo che si possa dotare di servizi senza allargare la cementificazione. Serve buona urbanistica. Riciclo di parti di città dismesse. Addensiamo dove la città è già densa recuperando edifici dismessi. Bisogna cominciare a pensare a una urbanistica flessibile. Quando un edificio dismette la propria funzione serve che sia già pronto per poterne accogliere un'altra».
Quanto tempo serve per ridisegnare le nostre città in quest’ottica?
«Le altre grandi città europee ci hanno messo 20 anni. Ma ciò non significa che per i prossimi 20 anni resteremo ostaggi di eventi climatici sempre più severi. In ogni giorno di questi 20 anni può cambiare qualcosa che migliora da subito la situazione».
Per esempio?
«Si possono rinaturalizzare subito alcune are. Dove ci sono zone pedonali o piste ciclabili si può togliere l’asfalto o il cemento e ridare permeabilità al terreno. Il superbonus del 110% può essere sfruttato non solo per rendere indipendenti gli edifici dal punto di vista energetico ma anche per produrre più energia di quella consumata in modo da poterla cedere e ridurre la produzione di Co2 da energia fossile, che è alla base del riscaldamento globale e degli eventi catastrofici che ne conseguono. Con i fondi del Pnrr si può accelerare il recupero di aree industriali dismesse e dare loro nuove funzioni».
Dal punto di vista politico e culturale siamo pronti a questo cambio di mentalità?
«Il cambio di mentalità è già avvenuto. Anche negli amministratori. Ora devono cambiare gli strumenti urbanistici. Serve maggiore concertazione, in altre città sono state create delle agenzie che mettono insieme enti pubblici e i privati per la programmazione. E occorre rapidità. Se un piano si approva in 10 anni e ce ne vogliono altri 10 perché generi effetti, diventa tutto inutile».
Ha parlato di tornare a un equilibrio fra città e natura. La tecnologia che ruolo ha in questo?
«Intanto bisogna partire da un dato di fatto. Non si può contrastare la natura, nemmeno la nostra tecnologia può. Però si può avere un aiuto dalla tecnologia. Servono sistemi di allerta tempestivi. Il caso dei sottopassi a Palermo è emblematico: in altre città c’è un sistema integrato che lancia sul cruscotto dell’auto tutte le notizie che servono ai cittadini quando escono da casa. Poi dove c’è maggiore pericolo che l’acqua crei danni si possono realizzare le vasche di laminazione: in alcune città diventano perfino laghetti o serbatoi per i pompieri. A Rotterdam le chiamano piazze d’acqua e sono laghetti in cui viene convogliata l’acqua che il terreno non assorbe: lì diventa un laghetto dove possono anche giocare i bambini. Sono tutte cose che si possono fare rapidamente durante quel processo di cambiamento di cui parlavamo prima».
Sarà più rapido il cambio climatico o il cambio nella filosofia costruttiva delle nostre città?
«Lo ripeto, siamo ancora in tempo per cambiare le nostre città».
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