ROMA. Nell’ora più buia del Partito democratico, Matteo Renzi è al Nazareno. Ma accarezza l’idea di lasciare, dimettersi. Voleva aspettare lo spoglio a casa, nella sua Firenze, e invece pochi minuti prima della chiusura delle urne varca la soglia della sede nazionale del Pd. E detta la linea: va male, andiamo all’opposizione.
Quanto male, lo dirà il passare delle ore. Si attendono i dati definitivi della Camera per misurare la distanza che separa la sconfitta da un tracollo. Ma il «tesoretto» del 40% alle europee, che segnò l’ascesa a palazzo Chigi, è evaporato, forse più che dimezzato. E il segretario si prepara a una resa dei conti che potrebbe passare dal tentativo di condizionarne le scelte, nelle trattative per il governo. Un redde rationem che potrebbe lui stesso anticipare. Con il passo indietro.
Aveva escluso di mollare la segreteria, Renzi. Ma con il passare delle ore e con il trend che sembra attestare il Pd sotto il 20% ai minimi storici, sembra accarezzare l’idea di essere coerente con la propria storia ed assumersi in pieno la responsabilità della sconfitta. Nel suo ufficio al secondo piano del Nazareno segue i dati con Matteo Orfini, con lui ci sono i fedelissimi, da Luca Lotti a Maurizio Martina e Lorenzo Guerini.
La linea decisa alla vigilia (guida salda del partito e "opposizione"), vacilla man mano che i dati vanno oltre le più buie previsioni. Renzi si rammarica di una campagna elettorale 'subita': impostata, contro la propria indole, come chiedeva il partito (avanti la squadra, toni bassi e proposte concrete). Ma al dunque, i dati pesano. L’elettorato del Pd sembra essersi rimpicciolito, anche al netto della scissione. Si pagano gli anni di governo, nonostante i dati del Pil positivi e tutti i risultati elencati allo sfinimento in campagna elettorale.
Paolo Gentiloni segue lo spoglio da Palazzo Chigi. I "big" non-renziani del partito non si vedono al Nazareno. Non ci sono i ministri Graziano Delrio e Dario Franceschini, non ci sono i leader della minoranza Andrea Orlando e Michele Emiliano. Aspettano dati più certi per parlare: tra gli orlandiani c'è chi spinge perché sia inoltrata al segretario la richiesta di dimissioni. Ma ora, in una fase così difficile, c'è da gestire la partita del governo, dove gli altri daranno le carte. Perciò c'è chi, anche nella minoranza del partito, pensa che non sia il momento che il segretario resti e invoca piuttosto una gestione collegiale.
Dalla minoranza, fermamente contraria a ipotesi di larghe intese, potrebbe levarsi nelle prossime ore anche la richiesta di andare a «vedere» sul serio le carte dei Cinque stelle. Un governo con i grillini e gli ex compagni di LeU (per quanto anche loro 'rimpicciolitì dal voto) potrebbe essere anche un viatico per la ricostruzione dell’unità a sinistra. Ma il segretario è contrario a questa ipotesi e su questo non sembra aver cambiato idea. Certo, le cose potrebbero cambiare, se tra qualche ora non fosse più lui il segretario.
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