ROMA. Un generale-ministro all’Ambiente, il paladino della battaglia alle ecomafie Sergio Costa. Nell’ultima domenica pre-voto Luigi Di Maio prova a uscire dal «cul de sac» dei candidati «incandidabili» lanciando, in tv, il primo nome del governo «ombra» del M5S.
È il primo profilo di una squadra di governo che Di Maio presenterà al Quirinale come gesto di «cortesia istituzionale» la prossima settimana e sulla quale vige un silenzio così denso da far pensare, a più di una malalingua, che il team sia tutt'altro che completato. Sulle pagine del Giornale di Sicilia di oggi un'intervista al candidato premier del M5s, Luigi Di Maio.
Di Maio sarà stasera a Palermo, alle 19 al Teatro Biondo. L'appuntamento rientra nell’ambito del Rally per l’Italia attraverso il quale il già vice presidente della Camera sta illustrando il programma dell’eventuale governo a 5 Stelle.
Per ora, tuttavia, il candidato premier M5S spariglia col nome di Costa - il Forestale che scoprì lo scandalo dei rifiuti tossici nella terra dei Fuochi - per l’Ambiente. Un nome in linea con i profili che il M5S sta cercando: personalità esterne, «patrimonio del Paese» ma che, allo stesso tempo, condividono le battaglie pentastellate.
«Da servitore dello Stato, qualora fossi indicato, mi renderò disponibile», è la risposta di Costa che annuncia di mettersi in licenza fino al 6 marzo. E che finisce nel mirino di FI e del Pd. «Usa il prestigio dei Cc per la propaganda elettorale», è inaccettabile, attacca il Dem Michele Anzaldi.
Per gli altri nomi ci sarà invece da aspettare l'1 marzo, quando il M5S presenterà l’intera squadra. Agli Esteri, al Viminale e alla Difesa, ci saranno «tre donne» come ministri. In mezzo, il Movimento dovrà invece districarsi nella giungla dei candidati espulsi o in odore di espulsione.
Candidati come il patron del Potenza Calcio Salvatore Caiata, o come il pugliese Antonio Tasso, condannato in primo grado nel 2008 e a un passo dall’espulsione che, ieri mattina, sottolinea che, dopo aver analizzato il caso con i legali, la sua posizione «non sia incompatibile con le regole del M5S». Un’incognita, quella dei candidati espulsi se saranno eletti. «I partiti non faranno giochetti su di loro», assicura invece Di Maio.
Del resto la linea governista dei vertici non permette passi falsi. «Se non avremo la maggioranza il mio appello ai partiti sarà per un confronto con tutti, per un contratto su un governo di programma», è la strategia di Di Maio. Una strategia che, nella sua idea, non può vedere il Movimento fuori dai giochi per il governo, anche se il M5S sarà primo partito ma senza seggi per l’autonomia in Parlamento. Ed è una strategia che, nel processo di «istituzionalizzazione» del Movimento, vede i vertici pentastellati allontanarsi dalla Lega e magari guardare, in una partita di retroguardia, a Pd e LeU.
«Smentisco gli scenari di un governo con la sinistra. Non mi fido di nessuno, non siamo disposti alle larghe intese ma non lasceremo il Paese nel caos», sottolinea Di Maio attaccando, tuttavia la Lega di Matteo Salvini: «Togliere la parola Nord non cancella gli insulti a chi è nato al Sud», ricorda. E, al suo fianco, Alessandro Di Battista si lancia in un inedito endorsement in direzione Dem. «Non nego che Marco Minniti abbia delle capacità che altri nel Pd non hanno», è il parere che il «Dibba» dà sull'operato del ministro dell’Interno.
Parole che, sottotraccia, aprono un varco a un governo di fatto ampio, con un timing di lavori puntuale e per la cui formazione il M5S guarda con crescente «pathos» al ruolo di Mattarella. «Non è scontato dare l’incarico a chi vince le elezioni? Allora non esiste democrazia in Italia?», sono le parole di Di Battista. Domande che hanno un solo destinatario: il Colle. I prossimi giorni, per il M5S, saranno decisivi. E non avranno Beppe Grillo in trincea fino al 2 marzo. «Lui stesso ci disse che il M5S doveva camminare sulle gambe degli eletti», spiega Di Maio. Ormai consapevole che, sul Garante, si potrà contare sempre meno.
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