TORINO. «Il futuro non va più di moda ma è la nostra sfida, la paura è l’arma elettorale degli altri». Torna alle origini, Matteo Renzi. Le origini del Pd, con il Lingotto di Veltroni che rivendica da «erede», non «reduce». E le proprie origini, con «l'ambizione di rappresentare una svolta e tornare all’egemonia, non in senso gramsciano, ma nel dettare l'agenda di un’Italia che non si rassegna al catastrofismo». Parole, queste, di un candidato alla segreteria Pd che rivendica la scelta di essere anche candidato premier. Con una novità, annunciata dopo la sconfitta al referendum: «Io ci sono, con le mie ferite. Ma prima di me - dice annunciando più collegialità e dibattito delle idee - ci siete voi». Uno dei due sfidanti, Andrea Orlando, critica però con durezza la linea renziana: "Usciamo dalla sindrome dell’autosufficienza. Io guardo a quelli che hanno costruito il Pd e poi sono rimasti per strada». La folla che riempie il padiglione del Lingotto, con tanto verde a far da sfondo e le sale per i workshop tematici a contornare il palco, è la risposta - sottolineano i renziani - a chi vedeva Renzi già azzoppato dal caso Consip. Lui, che in un’intervista afferma di avere contro «un intreccio di poteri», dal palco non fa alcun riferimento alle inchieste, tuona contro chi fa «battaglie rancorose contro qualcuno e non per qualcosa». Ma aggiunge che non attaccherà mai i suoi rivali Emiliano e Orlando. Parte dalla parola «insieme» e termina con due parole, "identità» e «patriottismo» che rivendica alla sinistra. In mezzo, un discorso che guarda al governo del Paese, a partire dalla sfida con chi cavalca la «paura». «Chi spara contro questa comunità non fa male solo ai militanti ma indebolisce l’argine del sistema democratico del paese», attacca. E lancia stoccate anche a chi è uscito dal Pd, bocciando la sinistra «che si divide», le logiche da «corrente», il «ping pong» delle polemiche. Cita a più riprese Walter Veltroni e riprende temi del suo Lingotto come Olof Palme e la necessità di combattere "la povertà, non la ricchezza». E afferma, smentendo lo stesso titolo della kermesse ('Tornare a casa per ripartire insiemè): "Non siamo qui per ripartire, perché non ci siamo mai fermati ma per discutere, dialogare, dividerci se serve», afferma con quello che pare un riferimento anche alle critiche di Sergio Chiamparino, che al Lingotto viene da sostenitore «critico». L’ex premier ribadisce che è «convintamente al fianco» di Gentiloni e rilancia la battaglia in Europa, a partire dalla proposta di primarie per la scelta del candidato Pse alla presidenza della Commissione. Rivendica la vicinanza al francese Emmanuel Macron e attacca «populisti e tecnici": «Per anni una parte delle elite dell’Italia ha considerato l’Europa lo strumento per convincere gli italiani riluttanti a fare riforme che altrimenti non avrebbero voluto fare, premier tecnici animati da sentimento antipatriottico e antitaliano». Al centro pone un tema come il lavoro e annuncia la nascita di una scuola di politica ("Frattocchie 2.0") e una piattaforma on-line di partecipazione che si chiamerà «Bob», come Kennedy. Quanto al partito, dice che il Pd è «l'argine del sistema democratico del Paese» e che se ci sono «abusi» sulle tessere a fronte di 420 mila iscritti è fisiologico. Ed è normale che non abbia gli stessi problemi M5s che a Monza elegge il candidato sindaco con 20 voti. Propone una ricetta diversa rispetto al partito leggero o al partito pesante, che è una partecipazione attraverso diverse forme. E afferma che c'è spazio per parlare anche ai Millenials. Parla di piattaforma congressuale, Renzi, ma guarda al governo del Paese. L’opposto di quel che fa Andrea Orlando, che propone la separazione dei ruoli di segretario e premier. Orlando sottolinea che il Lingotto è patrimonio «di tutto» il Pd e non solo della mozione renziana. E rivendica di essere in giro nelle piccole città e periferie del Paese, da chi sente la politica «lontana dalle grandi convention». Da fuori, attacca Renzi anche un «ex» come Pier Luigi Bersani: «Pretendere di riassumere il centrosinistra in un partito e il partito in un capo significa andare contro un muro».