ROMA. Con 107 sì, 12 no e 5 astenuti, la direzione del Pd approva l'accelerazione decisa da Matteo Renzi: nel fine settimana l'assemblea darà il via al congresso immediato dopo che il segretario formalizzerà le sue dimissioni necessarie per l'anticipo della sfida interna che nei fatti allontana il voto a giugno. «È ora di mettere un punto, facciamo il congresso e poi chi perde il giorno dopo da una mano», è il gong che suona l'ex premier che riesce a compattare la sua maggioranza tranne Andrea Orlando ma non a convincere la minoranza di Pier Luigi Bersani e Michele Emiliano, per i quali «con il congresso ad aprile si rischia la scissione». Alla direzione, in cui si consuma la rottura ampiamente prevista tra maggioranza e minoranza, partecipano tutti i big del partito: c'è il premier Paolo Gentiloni, che siede sul palco al fianco di Renzi, molti ministri, tra i quali Pier Carlo Padoan invitato dopo la polemica sulla manovra. Dopo anni di assenza in direzione, si fa rivedere Massimo D'Alema che però, a differenza di Bersani, Emiliano, Speranza e Rossi non prenderà la parola. Nè il premier nè il ministro dell'Economia saranno presenti allo scontro finale sui due ordini del giorno: ai voti viene messo solo quello di maggioranza che chiede il congresso con le stesse regole del 2013 e quindi una durata di quasi tre mesi e non quello della minoranza che chiede tempi più lunghi e il sostegno al governo fino a fine legislatura. Un'esclusione che, sostiene Francesco Boccia, «certifica la fine anticipata del governo», il «#paolostaisereno», rincara Gotor. A più riprese, Renzi chiarisce di volersi tenere fuori dalla discussione sulla data delle elezioni, assicurando «lealtà» a Gentiloni: «Congresso e voto sono due concetti distinti, non lo decido io, questa visione giuscaselliana del quando lo dico io va rimossa. La data la decidono il premier, i ministri, il presidente della Repubblica e il parlamento». Preso atto che «un ciclo è finito», Renzi si dimetterà per ricandidarsi. «Poi chi vince governa quattro anni e fa le liste», è la minaccia dei renziani certi, in base ai sondaggi, che non c'è rivale che tenga. «Non voglio scissioni. Ma se deve essere sia una scissione sulle idee, una scissione sulla data del congresso è un ricatto morale», chiarisce l'ex premier ad una minoranza che ora si trova davanti al bivio se partecipare al congresso o schierare un candidato comune. Per Bersani il timing è sbagliato e le cose «cotte e mangiate» non porteranno nulla di buono. L'ex segretario chiede una parola chiara sulla vita del governo Gentiloni: «Io propongo che diciamo non solo il 2018, ma garantiamo davanti all'Europa, i mercati, gli italiani, la conclusione ordinaria della legislatura». Parola che, a fine direzione, per la minoranza non arriverà. E dubbi sul fatto che il congresso immediato non sia un avviso di sfratto a Gentiloni ce l'ha anche Andrea Orlando, l'unico della maggioranza dem che si astiene e non è d'accordo con la proposta del segretario. «Il congresso per fare una discussione vera è come fare le tagliatelle con la macchina da scrivere perchè in base al nostro statuto serve solo a legittimare il leader», si smarca il Guardasigilli, da tempo «sospettato» di poter diventare il candidato della sinistra interna per sfidare Renzi. In realtà ad ora i candidati sono già tre: Roberto Speranza, per il quale un congresso come «gioco delle figurine è un rischio», Enrico Rossi e Michele Emiliano. «Quella di candidarmi alla segreteria è una cosa che sento di fare, è necessaria», tira dritto il governatore pugliese. Non si candiderà di nuovo, invece, Gianni Cuperlo che chiede una sterzata altrimenti il rischio «se il capobranco perde l'orientamento» è di fare la fine delle balene spiaggiate in Nuova Zelanda.