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Assemblea del Partito Democratico a Roma, attesa per le mosse di Renzi dopo le dimissioni

ROMA. Non sottoporre il partito a un altro  stress, non dare pretesti alla minoranza per rompere ed evocare  scissioni, non perdersi in dibattiti interni sulle regole. Sono  le ragioni per cui Matteo Renzi potrebbe decidere di non aprire oggi il congresso Pd, ma lanciare una fase di ascolto nel  Paese che potrebbe culminare in una conferenza programmatica ed eventualmente primarie in caso di voto anticipato.

Il segretario  riunirà la prima assemblea del partito dopo le sue dimissioni da premier e a poche ore dal suo intervento tiene ancora le carte coperte. Perciò nessuno esclude sorprese 'alla Renzì. Ma già  tirano un sospiro i sostenitori del 'congresso ma non subito,  prevalente sia nella maggioranza che nella minoranza del Pd.  Renzi tornerà oggi a Roma dopo le giornate trascorse nella sua Pontassieve, tra telefonate con i parlamentari e la lettura  di migliaia di messaggi su Facebook.

Farà una relazione ampia -  riferisce chi lo ha sentito - sugli esiti del referendum ma più  in generale su quanto fatto dal governo: i risultati ottenuti e gli errori compiuti. Nessuno sconto si aspettano i fedelissimi  sulla minoranza «che ha esultato per il No» ma anche sui rischi  di «palude» da «vecchia» politica della fase attuale.   Proprio in chiave anti-palude l'ex premier potrebbe aprire  formalmente la fase di dialogo sulla legge elettorale, in attesa  della Consulta. L'idea della vigilia sarebbe quella di mettere  da subito sul tavolo una proposta 'pesantè come il Mattarellum.  Non solo, ragionano i renziani, il sistema di voto che porta il  nome del presidente della Repubblica ha mostrato di funzionare,  ma è anche quello per cui Renzi si è battuto a inizio  legislatura (la minoranza ha presentato un Mattarellum 2.0).  Certo, non è un sistema che piace a Berlusconi, ma avrebbe il  pregio di far ripartire la discussione non dal proporzionale.

Quanto al congresso, il segretario potrebbe decidere di non  forzare la mano e non andare alla conta (convocare il congresso  subito richiederebbe modifiche statutarie votate da maggioranze qualificate) ma puntare su una campagna di ascolto per l'Italia  prima della fase congressuale e eventualmente una conferenza  programmatica e, se servirà, primarie per la premiership (magari  di coalizione, a seconda della legge elettorale).

Questa linea  sarebbe stata caldeggiata negli ultimi giorni da esponenti della  maggioranza come Guerini, Delrio, Richetti, ma pure Franceschini  e Orlando. Mentre non convincerebbe alcuni renziani, che premono  perchè il congresso si apra subito. Ma il rischio è andare allo  scontro con la minoranza che chiede con Roberto Speranza «un  congresso vero e non un votificio». Una posizione, dicono a  microfoni spenti i renziani, che nasce dalla paura: «Speranza si  candida alla segreteria ora che ha capito che non si apre  subito», dice un esponente di sinistra che sta in maggioranza.

Oggi in assemblea, per la prima volta dai tempi di Letta,  Renzi non vestirà i panni di segretario e premier. E farà  l'esordio da presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. A lui la  sinistra Dem, con Pier Luigi Bersani, chiederà di mettere subito  mano al Jobs act, a prescindere dall'ammissibilità o meno del  referendum abrogativo proposto dalla Cgil. Abolire i voucher e  reintrodurre tutele per i licenziamenti: «Se non si vuole  chiamarlo articolo 18, si chiami 17 virgola», dice Bersani. Ma  sul punto il nuovo premier è stato chiaro, giovedì notte, in  conferenza stampa a Bruxelles: «Non abbiamo nessunissima  intenzione di cambiare linea sull'articolo 18 e sul Jobs act».

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