ROMA. Dopo aver incassato ieri la fiducia alla Camera, il governo Gentiloni ottiene il via libera dal Senato con 169 sì, 99 no e nessun astenuto. Esattamente lo stesso risultato che riportò il governo Renzi il 25 febbraio del 2014 quando chiese e ottenne la prima fiducia a Palazzo Madama.
Stavolta però, si osserva da più parti in Aula, la scena è ben diversa. «Renzi venne a chiederci fiducia con la mano in tasca affermando che sarebbe stata l'ultima volta che la Camera Alta l'avrebbe concessa», ricorda il capogruppo della Lega Giammarco Centinaio. «Mentre lei - osserva il presidente dei senatori Gal Mario Ferrara rivolgendosi a Gentiloni - usa toni meno arroganti e presuntuosi» prendendo in prestito anche la parola «umiltà» citata all'epoca da Ciampi («per il tempo che sarà necessario in questa delicata transizione servirò con umiltà gli interessi del Paese»). Un atteggiamento che fa dire a molti esponenti dell'opposizione, tra cui Cor e Gal che, pur votando contro, da parte loro «ci sarà massima collaborazione» anche per riscrivere la legge elettorale, una delle priorità indicate dal nuovo esecutivo. Piuttosto ricca, infatti, l'agenda del governo riassunta dal premier: oltre alla modifica dell'Italicum («che dovrà fare comunque il Parlamento») ci sono gli impegni in Europa, il completamento delle riforme cominciate dal governo Renzi e le misure a sostegno del sistema bancario e dei terremotati. Nel pomeriggio, infatti, oltre ad un Consiglio dei ministri, convocato in tutta fretta prima di volare a Bruxelles per il Consiglio Europeo, Gentiloni avverte che si vedrà con il capo della Protezione civile e il Commissario Errani per fare il punto sull'emergenza sisma. Un carnet fitto di impegni, insomma, che farebbe pensare ad un governo «non certo a termine», come sottolinea più volte la capigruppo di Ncd Laura Bianconi.
E invece un possibile orizzonte viene indicato dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti con una dichiarazione che irrompe come un fulmine nel dibattito politico. Secondo Poletti, infatti, è probabile che si tornerà a votare prima che si tengano i referendum sul Jobs Act indetti dalla Cgil sulla cui ammissibilità deciderà la Consulta l'11 gennaio. Come a dire: si fa la legge elettorale e poi si va alle urne. L'affermazione, che rimbalza tra i capannelli di politici e giornalisti che presidiano il salone Garibaldi in attesa della fiducia, viene letta con preoccupazione da buona parte della maggioranza. Anche se in serata Poletti si corregge parlando in cdm di una «scivolata» non concordata con nessuno, tanto meno con Renzi. Tra i preoccupati dopo la dichiarazione di Poletti, il presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano che lancia un appello ai suoi: «Bisognerà misurarsi con i referendum proposti dalla Cgil, non si può mettere la testa sotto la sabbia». Meglio riformare il Jobs Act per tempo è l'invito dell'esponente Pd Roberto Speranza.
L'emiciclo del Senato, intanto, resta semi deserto per buona parte della giornata visto che i 5 Stelle restano fuori durante il dibattito. Al loro posto una copia della Costituzione. Rientrano per la dichiarazione di voto, durante la quale inscenano una protesta alzando cartelli gialli con la scritta «20 milioni di No» riferendosi alla vittoria referendaria, e per votare, quando capiscono che il numero legale rischia di abbassarsi troppo. Disertano invece l'Aula al momento della fiducia Lega e Ala. Ma anche i banchi del governo non sono al gran completo: Maria Elena Boschi, Anna Finocchiaro e Luca Lotti sono fuori per impegni istituzionali. E quando Grasso legge i voti, seduto sugli scranni dell'esecutivo non c'è più nessuno. Gentiloni, subito dopo la replica, applaudita in piedi dai Dem, scappa alla volta di Palazzo Chigi. Lo accompagna la nuova squadra di cui fa parte anche la ministra alla Scuola Valeria Fedeli che prima di andar via abbraccia la collega Stefania Giannini, unica «vittima sacrificale» dell'esecutivo «renziloni», come lo chiama criticamente Centinaio.
La maggioranza per ora c'è. Ne entrano a far parte anche gli ex Sel Luciano Uras e Dario Stefano. Ma per il futuro il rischio di tornare a «ballare» è forte: in quasi tutte le commissioni, senza Ala, la maggioranza è sotto o in vantaggio di un solo senatore. E nessuna certezza anche sul nuovo presidente della Prima Commissione (al posto della Finocchiaro) e sul vicepresidente che sostituirà la Fedeli (non più del Pd che ha già Linda Lanzillotta): la loro elezione si farà con voto segreto.
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