FIRENZE. "Fuori, fuori". Dopo i fischi, ieri, a Massimo D'Alema, il boato alla cacciata della minoranza Pd esplode dalla platea della Leopolda quando Matteo Renzi chiama alle armi in un affondo contro "i teorici della ditta quando ci sono loro e dell'anarchia quando ci sono gli altri".
Il premier non frena i pasdaran, "non urlate ma votate e fate votare" dirà più tardi, ma ormai lo spettro della scissione torna ad aleggiare. Ma la sinistra dem, ancora più isolata dopo il sì di Gianni Cuperlo al documento sull'Italicum, non ha alcuna intenzione di farsi cacciare: Pier Luigi Bersani ribadisce ai suoi che devono andarlo a "prendere con l'esercito" per lasciare il Pd a rischio rottura, secondo i bersaniani, proprio per la mancata volontà unitaria del leader.
A 28 giorni dal referendum, con sondaggi difficili, per Matteo Renzi il merito della riforma passa in secondo piano. "Più che il bicameralismo paritario si tratta di superare l'atteggiamento rinunciatario di chi ci dice ciò che dobbiamo fare e cosa", carica il premier che, nella kermesse che l'ha lanciato sulla ribalta nazionale, torna ai toni del rottamatore.
Il 4 dicembre, nella volata finale che il leader Pd ha intenzione di fare girando in lungo e in largo l'Italia, diventa una scelta di campo "non tra due Italie, che è una e indivisibile, ma tra due gruppi dirigenti": chi ha proposte e guarda al futuro e i "gattopardi" che frenano dopo aver fallito per 30 anni e che "se li chiudi in una stanza per avere un'idea non ne escono più".
Musica per le orecchie dei leopoldini, i più renziani dei renziani, gente che prima di scegliere il Pd ha scelto, 7 anni fa, Matteo Renzi. E che non solo oggi, spingendo fuori dal partito la sinistra di Bersani e D'Alema, è capace di andare oltre le intenzioni del leader: quando Renzi perse le primarie per la premiership nella kermesse fiorentina non erano in pochi a pensare che sarebbe stato meglio fare un partito nuovo e candidare il giovane fiorentino alle elezioni.
Non andò così come ora il principale obiettivo del leader dem è vincere il referendum. I conti, sostengono i fedelissimi, si faranno al congresso dove Renzi sembra avere intenzione di candidarsi comunque. Non è invece un uomo da "governicchi tecnici" l'ex sindaco di Firenze come lascia intendere oggi contrapponendo eventuali scenari per il 2017.
Scenari che la minoranza allontana, ripetendo che in ogni caso Renzi deve andare avanti. "Non credo che la stabilita' del nostro Paese sia in questione", dice oggi da Tel Aviv Massimo D'Alema. Anche per Bersani il premier deve andare avanti comunque al governo mentre dovrebbe lasciare la guida del Pd.
L'ex segretario rimanda alla battaglia congressuale, amareggiato da chi, a suo avviso, vuole alimentare la scissione. "Che il segretario di un partito - sostiene Miguel Gotor - non avverta l'esigenza di placare il grido 'fuori fuori' dei suoi supporter vecchi e nuovi, la dice lunga sulle sue effettive capacità di direzione politica". Altro che volontà di distruggere il Pd dopo aver distrutto l'Ulivo, come attacca il premier. Lo slogan dell'Ulivo, ricordano i bersaniani, era "'uniti per unire', quello del Pd di Renzi invece è diventato nell'inconsapevolezza della sua curva di aficionados 'divisi per dividere'".
Chi resta senza parole oggi è Gianni Cuperlo, non ringraziato per la scelta di votare sì dal leader Pd ma solo per evitargli, spiegano i renziani, nuovi attacchi di tradimento. Certo l'unità del partito, obiettivo dichiarato della scelta dell'ex diessino, oggi appare sempre più fragile.
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