PALERMO. «Qui si parrà la tua nobilitate». Stefano Cingolani, giornalista e scrittore, ricorre (non casualmente) ad una citazione di un grande conterraneo di Matteo Renzi per commentare i dati appena pubblicati dall’Istat sul 2015. «La caduta è finita» dice Cingolani. «Ora bisognerà vedere se il governo sarà capace di avviare una credibile strategia di crescita. La partita è tutta qui. L’unico ostacolo che può azzoppare il governo è la fragilità della ripresa economica». Però è già un fatto positivo che, dopo sette anni, finalmente il segno meno sembra definitivamente scomparso. Il peggio è davvero passato? «La sorpresa migliore è il dato di gennaio sul lavoro. Ci sono 70 mila occupati in più che allontanano molte preoccupazioni. Soprattutto di quanti avevano visto nei miglioramenti del 2015 solo gli effetti delle misure di decontribuzione varati con la legge finanziaria. Positivo è anche l’andamento relativo alle persone in cerca di occupazione che, pur stabili rispetto a dicembre 2015, sono diminuite in un anno di 169mila unità». Il Jobs Act comincia a funzionare, quindi? «I dipendenti a tempo indeterminato sono aumentati (+99 mila a gennaio e +426.000 sull’anno) mentre calano i contratti a termine (-28 mila) e gli autonomi restano sostanzialmente stabili. Resta il fatto che la crescita è ancora da prefisso telefonico. Quindi il dubbio rimane: l’occupazione sale perché c’è più lavoro o per effetto della decontribuzione?». La risposta? «C’è un miglioramento forte ma, considerate le enormi risorse che il governo ha messo a disposizione era legittimo aspettarsi di più. Due anni fa gli 80 euro, l’anno scorso il taglio dei contributi sui nuovi assunti che costerà oltre dieci miliardi nel triennio. Poi l’abolizione dell’Imu. Non si può certo dire che manchino gli sforzi per favorire l’espansione siano mancati. Purtroppo i risultati sono inferiori alle attese». La ragione? «Quella che conosciamo tutti da sempre: l’eccessivo carico fiscale che serve a tenere in piedi la gigantesca macchina dello Stato e pagare il debito. Fino a quando non si risolvono questi due problemi non se ne esce. Purtroppo in questi anni sono state perse occasioni importanti Nel frattempo il quadro internazionale è diventato più oscuro: deflazione e stagnazione impediscono finora di centrare gli obiettivi economici del governo. La Commissione europea può essere ingenerosa sulla Renzi ma ha ragione da vendere su due punti: l’Italia è ancora un pessimo luogo dove fare gli imprenditori e mollare la spending review è stato un errore strategico. Il primo punto determina la debolezza fondamentale del Paese, bloccato da bassa produttività e una produzione che non riparte; il secondo influisce in modo determinante sulla più gigantesca palla al piede: il debito già alto e che, fino a prova contraria, continua a crescere. L’intero sistema “è troppo esposto al rischio sovrano”, scrivono a Bruxelles». Come dare loro torto se ogni giorno politici, banchieri, industriali, sono incollati ai movimenti dello spread? «Il governo ha cercato una risposta alta con il documento strategico sull’Europa pubblicato la settimana scorsa. Il ministro dell’Economia ha fatto il lavoro che in molti chiedevano al governo italiano: presentarsi a Bruxelles non solo con i pugni in tasca, ma con una chiara proposta di riforma di tutto quello (ed è tanto) che non va». Sicuramente quel documento segna un salto di qualità per la presenza italiana nella Ue. Quali sono i punti qualificanti? «L’approccio è coniugato in chiave espansiva: spesa in deficit, investimenti pubblici, condivisione dei rischi, assicurazione comune dei depositi, protezione del mercato del lavoro, un assegno di disoccupazione europeo, eurobond e persino un ministro del Tesoro comune, inteso più come un coordinatore e arbitro delle politiche fiscali nazionali, con la facoltà (addirittura!) di costringere i Paesi in surplus (la Germania) a spendere e ampliare la domanda interna. Sarà un capitolo da sogno del libretto dei sogni, ma è il requisito fondamentale della reciprocità, senza la quale è del tutto inutile immaginare altre cessioni di sovranità o costruire pinnacoli di quella cattedrale gotica e sbilenca, oberata di apparati burocratici, che viene edificata giorno dopo giorno a Bruxelles». I rapporti fra Renzi e Bruxelles sono al minimo storico. Roma ha bisogno di maggiore flessibilità sui conti per consolidare la ripresa. La posizione italiana riuscirà a diventare un punto di riferimento capace di cambiare la rotta dell’Europa? «La risposta non dipende tanto dalla bontà delle proposte, ma da decisioni politiche condizionate a loro volta dal quadro generale. In primo luogo la Brexit. Se a giugno vincerà l’uscita britannica (o inglese perché bisognerà vedere cosa faranno gli scozzesi) dalla Ue, tutte le buone intenzioni di oggi diventeranno i sogni infranti di domani. In secondo luogo, dovremo vedere come reagiranno l’élite francese e il Modell Deutschland alle proprie crisi interne, al montare del populismo (Marine Le Pen) o alla frana di alcuni pilastri economici in Germania che spinge verso il ricorso a salvataggi nazionali». Poi bisognerà anche vedere se Renzi riesce a vincere le elezioni amministrative. «Padoan ha costruito una piattaforma che segue la tradizione europeista dei piccoli passi avanti, della costruzione per tappe di una unione rafforzata. Fino a immaginare un ministro delle Finanze comune in assenza di una politica fiscale comune. No taxation without representation viene rovesciato perché ci sarebbe una figura politica senza il potere di imporre le tasse, ma con il potere di dire agli altri come farlo. Il rischio è che si crei un altro pasticcio: l’euro, la moneta senza Stato, verrebbe accompagnato da un’altra istituzione senza quel potere che ne giustifica l’esistenza e ne garantisce la legittimità. Oltre tutto oggi le cose stanno prendendo un’altra piega. L’Europa a più livelli implica un nocciolino duro all’interno del quale possa essere condivisa anche quella facoltà che la Ue lascia agli Stati nazionali perché a sua volta fondante della sovranità nazionale, cioè imporre le tasse ai cittadini. A patto però che i membri del club siano assolutamente omogenei e riconosciuti reciprocamente affidabili». Ma Renzi ha la credibilità per giocare una partita tanto impegnativa? «Se il premier avrà la capacità di difendere fino in fondo la posizione, nessuno a Bruxelles potrà più dire di non sapere cosa vuole Roma. Che la tenzone cominci e speriamo bene. Ne va del futuro di tutti noi».