ROMA. Con una immagine fantasiosa l’ha battezzato «Umor nero» e con questo titolo ha appena pubblicato in libro per Bompiani. L’autore è il siciliano Michele Ainis, uno dei più noti costituzionalisti italiani (è ordinario all’università di Roma tre). Con ironia e amarezza spiega che a ben guardare molto del riformismo italiano si riduce ad un gioco di parole. Le cose dette e non dette, i suoni senza contenuto, l’alfabeto del nostro scontento. Alla luce di tanto disincanto (in cui forse gioca un certo pessimismo legato all’origine siciliana) Ainis legge gli avvenimenti dell’ultimo anno: la riforma costituzionale, ma anche le nuove regole della tv, il jobs act e l’intero armadio di strumenti utilizzati dal governo Renzi per cambiare l’Italia. L’analisi è un viaggio nelle regole giuridiche in cui si riflette la storia nazionale. Si scopre così che la cifra unificante del cambiamento in corso sta tutta nel risentimento. Si condensa in un rancore collettivo che a sua volta s'alimenta d'insoddisfazione per come girano le cose, di presagi oscuri sul futuro, d'impoverimento economico e morale. Da qui il degrado dei nostri rapporti politici e civili, da qui i nostri cattivi umori. Professore non le sembra un’analisi un po’ troppo segnata dall’umor nero: le riforme come semplice frutto del risentimento. Riduttivo non le pare? «Gioca il risentimento verso la pesantezza dell’attuale sistema e così le novità sono tutte indirizzate verso la semplificazione. Guardate quello è accaduto sulle banche e o sulla Rai». Che cosa c’è di sbagliato nell’intervento del governo? «Ha cercato di mettere ordine nella confusione delle competenze. Sulle banche è emersa l’incertezza del confine di poteri tra Consob e Banca d’Italia. Una zona grigia per cui, alla fine, non si è capito bene chi avesse responsabilità nel fatto che i risparmiatori non fossero stati informati dei rischi connessi all’acquisto delle obbligazioni. Per risolvere il problema ha messo da parte le due istituzioni affidando all’autorità anti-corruzione di Raffaele Cantone il compito di decidere sui rimborsi a favore degli investitori in buona fede». E sulla Rai? «Alla Rai ha potenziato la figura del direttore generale mettendo in secondo piano le competenze del consiglio d’amministrazione e della commissione di vigilanza. Lo stesso con la legge sulla «Buona scuola»: al preside poteri in precedenza diffusi su altri soggetti. Gli esempi potrebbero continuare: le camere di commercio e le prefetture sono state private di molte competenze, le province abolite e con la riforma costituzionale scomparirà anche il Cnel e il Senato verrà dimezzato». Scusi professore qual è il problema? «Il problema è che il sistema sta cambiando profondamente senza che nessuno abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. La struttura istituzionale del Paese si sta verticalizzando saltando i corpi intermedi. Con la riforma del jobs act le segreterie nazionali del sindacato perdono buona parte delle loro funzioni che vengono diffuse a livello territoriale promuovendo il contratto aziendale e rendendo più semplici i licenziamenti». Sono le riforme che Renzi aveva detto di voler fare annunciando la rottamazione del vecchio sistema. Sta solo seguendo il suo programma. E allora? «Certo che è così. Solo che tutto sta avvenendo in mezzo alla confusione. Il vecchio assetto aveva una sua intima connessione. Usciva dalla sconfitta nel conflitto mondiale e dal fascismo. La Costituzione voleva dare una svolta con un forte privilegio al potere delle rappresentanze democratiche a scapito della governabilità. Incombeva la Guerra Fredda e non si sapeva da quale parte sarebbe andata l’Italia. Per questa ragione la Costituzione aveva annebbiato i poteri dell’esecutivo a favore del Parlamento cui era stata data una rilevanza aggiuntiva con il bicameralismo perfetto. Nel frattempo il sistema era stato strutturato con poteri intermedi e forti contrappesi. Ora tutto questo sta scomparendo e l’Italia marcia verso una configurazione diversa. Andiamo verso il semi-presidenzialismo, ma senza che questa parola venga mai pronunciata e senza che nessuno spieghi esplicitamente che cosa accade». A suo parere siamo al rodeo delle cose non dette. Fare senza dire? «Proprio così. L’immagine dell’oggetto si dissocia dalla sua sostanza, sicché ciascuno ci vede un po’ quel che gli pare. Come racconta un volumetto di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti («La buona logica»), la nostra percezione spesso è falsata da queste trappole visive. Che poi si trasformano in trappole verbali, generando in ultimo altrettante logomachie: dispute sulle parole, non sulle questioni. Chiunque accenda a un’ora tarda la tv, sintonizzandosi sul talk show di turno, ne può collezionare un campionario». Ma le riforme sono state votate: difficile dire che non ci sono, non trova? «Ha mai visto un governo che non si sia dichiarato riformista? Mai: tutti i governi, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, ci hanno sventolato sul naso le proprie riforme. D’altronde ogni legge introduce una riforma sulla legislazione preesistente, e i governi stanno lì per dettare le leggi. Tuttavia se tutti sono riformisti, nessuno è riformista. Forse è questo a intossicare la nostra vita pubblica, l’assenza d’un linguaggio rigoroso. E più onesto, più sincero. Una riforma, se è davvero tale, pesta qualche piede, e ne riceve in contraccambio dei calcioni. Se tutti stanno buoni e zitti, significa che non è successo niente. È una riforma la Buona Scuola? Certo, a giudicare dal vespaio di reazioni che ha destato. E la riforma Madia sulla pubblica amministrazione? Fin qui procede nel sonno degli astanti, senza incontrare opposizioni. Dunque c’è la parola, non la cosa». E la riforma alla Costituzione come la definisce? «Certamente la Costituzione sta cambiando. O forse no. Perché la novità più innovativa non è scritta nero su bianco nel testo di riforma, bensì nella legge elettorale. Con un premio di maggioranza concesso al partito - anziché alla coalizione - intascheremo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, senza correggere una virgola della nostra forma di governo parlamentare. Che dunque rimarrà viva ma esangue, come una fanciulla addentata dal vampiro. Il presidenzialismo venne già proposto dai monarchici nel 1957; successivamente dai missini; poi da Craxi nel congresso di Rimini del 1987; dalla Bicamerale di D’Alema nel 1997; da Berlusconi nel 2008. Nessuno di loro vi riuscì, per la medesima ragione che sta permettendo a Renzi la riuscita. Difatti alle nostre latitudini vige una regola d’acciaio: se vuoi fare, non lo devi dire. E se invece dici, usa almeno due parole: una per dire, l’altra per disdire. Prendiamo il Senato. Il comma 2 ne stabilisce l’elezione, il comma 5 la durata. Ma la norma elettorale ha una gamba di qua e una gamba di là: nel comma 2 decidono i Consigli regionali, nel comma 5 gli elettori. Contorsioni logiche, acrobazie semantiche».