ROMA. La riforma della Pubblica Amministrazione è legge, dopo oltre un anno dal suo annuncio in Consiglio dei ministri e tre passaggi parlamentari. Un lungo percorso che si è concluso con il via libera definitivo al Senato, dove a sorpresa il numero è stato assicurato grazie alle opposizioni. Un'approvazione arrivata quindi con un pizzico di suspance ma comunque senza mai fare ricorso alla fiducia.
Ecco che il premier Matteo Renzi parla di «un altro tassello» messo a posto, non facendo così mancare un «abbraccio agli amici gufi». Il ministro della P.A, Marianna Madia, guarda già avanti, a quella che sarà la vera partita: il lavoro «continua» e punta dritto ai «decreti attuativi», circa una ventina, o poco meno. L'obiettivo è presentare un primo pacchetto di provvedimenti applicativi già a settembre, con misure di semplificazione e Spending Review: in ballo c'è il taglio delle partecipate. Intanto con 145 favorevoli, 97 contrari e nessun astenuto il ddl P.A. conclude a palazzo Madama la staffetta parlamentare, senza modifiche rispetto al testo uscito a metà luglio dalla Camera. L'approvazione è giunta anche in anticipo, si prevedeva di finire tra mercoledì e giovedì. Un'accelerazione che faceva prefigurare un iter senza inciampi, ma proprio nel momento clou, quando si è passati al voto finale ci si è accorti che in Aula per un soffio non si è andati sotto il numero legale (150 presenza minime).
La sola maggioranza non sarebbe quindi stata in grado di assicurare la soglia necessaria e per questo è risultato indispensabile il voto, seppure contrario, delle opposizioni. «Renzi attacca amici gufi, ma dovrebbe ringraziare Lega, FI e Movimento 5 Stelle», commenta il senatore di Fi Francesco Giro. D'altra parte, in occasione del primo ok del Senato, le opposizioni avevano provato a far saltare l'approvazione uscendo dall'Aula, ma poi, anche per un solo voto, il loro tentativo fallì. Comunque, in questi casi, quel che si può ottenere di norma è solo uno slittamento del via libera. Archiviato questo fronte, se ne apre però un altro: l'attuazione. La maggiora parte dei punti cardine della riforma passa infatti per l'esercizio di una delega: dal riordino della dirigenza alla riduzione della camere di commercio, passando per la svolta digitale, la revisione dei concorsi pubblici e la stretta sulle assenze. Ma non mancano anche misure auto-applicative: dal nuovo meccanismo del silenzio assenso, al ringiovanimento dell'avvocatura dello Stato, incluse le misure per la conciliazione dei tempi di vita e lavoro.
Tuttavia, mese più mese meno, Madia garantisce che «tutti i decreti» arriveranno per «fine anno». E sottolinea tra i punti di maggiore forza della riforma il «taglio agli sprechi» che porterà «a pagare meno tasse». Non è d'accordo il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, per cui il ddl dà «uno straordinario potere alla politica». E le sigle sindacali della P.A. lanciano tutte insieme un avvertimento: «Il lavoro pubblico non sarà il bancomat del governo per una, anche questa illusoria, riduzione delle tasse». Al contrario esprime «soddisfazione» Confindustria, secondo cui si va verso «un'amministrazione pubblica più rapida» ma anche «più snella». Tornando alle opposizioni, pur facendo da 'stampellà alla maggioranza, hanno riservato duri giudizi sul ddl: per M5s si tratta «solo di tagli e deleghe in bianco», sulla stessa linea Sel mentre secondo Ln è semplicemente «un grande libro dei sogni». Voto contrario anche di Ala, che lamenta la mancata estensione del Jobs act agli statali.
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