I commenti al voto di domenica hanno riportato l’orologio del dibattito politico indietro di alcuni decenni. Ai tempi di Tribuna Politica e di Ugo Zatterin che moderava gli interventi con la cautela di un gran visir. Erano i tempi della Prima Repubblica quando , comparendo dinanzi al video, tutti i leader invariabilmente annunciavano la vittoria del loro partito. Non diversamente oggi ha fatto Berlusconi che considera l’affermazione in Liguria come la Ridotta in Valtellina da cui sarebbe partita la riscossa del fascismo sconfitto dalla storia e dagli Alleati. Ancora più dolce il sapore della vittoria per il Cavaliere considerando che l’alloro è toccato a Giovanni Toti, ex giornalista Mediaset, e leader creato in laboratorio dal partito-azienda. Lo champagne della notte però non è servito a coprire l’amaro di due verità molto scomode: la prima dice che Toti gode in consiglio di una maggioranza molto risicata e in secondo luogo che a portare i numeri del trionfo non è stata Forza Italia ma la Lega.
Perché questa è la verità nel centro-destra dove ormai il peso degli Azzurri sta diventando residuale. Gran parte della delusione si rifugia nell’astensionismo che a guardar bene sta diventando la cifra generale del quadro politico. Sia a destra quanto a sinistra. La frantumazione dentro la politica è già straripata nella società, a giudicare dal fatto – cosa che non bisogna assolutamente dimenticare o sottovalutare – che alle urne ormai si presenta un media solo un italiano su due.
Il fronte moderato più di altri sembra vittima del rifiuto delle urne da parte degli italiani. La ragione è semplice visto che cambiando composizione verso una un movimento a trazione leghista che sicuramente rende molto difficile la conquista del governo del Paese. Sempre ammesso che a Salvini la cosa interessi. Perché a questo punto è forte, come faceva notare proprio su queste colonne Luca Ricolfi, il dubbio che la Lega stia prendendo alcune caratteristiche che erano state proprie del vecchio Pci. L’attenzione, cioè, interamente rivolta al territorio e non a Palazzo Chigi. Una diffusione nazionale del consenso ma sempre a dimensione locale. I campanili di provincia considerati assai più importanti della cattedrale romana. I vecchi comunisti perché sapevano che non sarebbe mai stato permesso loro l’ingresso. I leghisti per calcolo politico. Conquistare saldamente la guida degli enti locali dando solo uno sguardo distratto al governo nazionale ha un doppio vantaggio: da una parte consente comunque di esercitare il potere sul territorio e dall’altra di non dover abdicare alle parole d’ordine che stanno facendo la fortuna del Carroccio a guida Salvini. Vale a dire la lotta all’euro, ai rom, all’immigrazione. Slogan di grande impatto emotivo ma di difficile praticabilità, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di abbandonare la moneta unica ormai diventata, nel nuovo sacrario della Lega, l’incarnazione del male assoluto. Alla stessa maniera dei vecchi comunisti che potevano continua a predicare la rivoluzione proletaria senza dover rinunciare ai vantaggi del potere all’ombra del campanile.
Tra i finti vincitori di queste elezioni, nonostante le dichiarazioni del contrario dobbiamo mettere Grillo. Anche qui una visione strabica della situazione. Percentuali di consenso molto elevate e molte volte in crescita rispetto alle europee. Con questi nomi i seguaci del comico genovese possono sbandierare luminosi successi. Una perfetta replica dello stile Prima Repubblica. Sul piano sostanziale il risultato è molto insoddisfacente visto che su nessuna regione sventola la bandiera a Cinque Stelle. Dobbiamo anche considerare che, avendo ormai le Regioni adottato, pur nella diversità delle leggi elettorali, il sistema maggioritario il consenso dei grillini non ottiene una rappresentanza adeguata al voto. Di questo passo il partito si condanna all’irrilevanza cui, prima o poi seguirà l’insuccesso alle urne.
E veniamo al Pd. Ha vinto? Ha perso? In base al punto di vista si può dare risposta affermativa a uno o all’altro dei due interrogativi. Siamo sempre nel perfetto solco della Prima Repubblica. Renzi sperava nel 6 a 1. Si è ritrovato sul 5 a 2 e con consensi in calo rispetto alle europee. Certo non si può considerare un trionfo ma bisogna anche tener conto della realtà. L’anno scorso il premier volava sulle ali della rottamazione promettendo che avrebbe rivoltato il Paese. Stavolta l’effetto-novità è sparito e il suo governo ha dovuto fare i conti con problemi concreti: l’economia che stenta a ripartire, la disoccupazione che non scende, il mondo della scuola che, per la prima volta da molti anni, è sceso in campo contro il Pd che, invece, era considerato tradizionalmente il partito di riferimento. Per non parlare, naturalmente, del pasticcio delle pensioni e degli altri incidenti di percorso inevitabili nell’azione di governo.
Ma c’è un’altra domanda da farsi: quale Pd ha vinto e quale Pd ha perso? E’ sempre più evidente che ci troviamo di fronte a due partiti con difficoltà crescenti ad andare d’accordo. La contraddizione è esplosa in Liguria consentendo la vittoria del centro-destra di Toti. La componente del Pd che parte da Bersani e arriva a Fassina probabilmente proverà a rialzarla testa visto che la manovra di sabotaggio è riuscita: da ora in avanti faranno valere il potere di ricatto sostenendo che senza di loro il Pd non vince . Quale sarà ora la scelta di Renzi? Il punto è cruciale. Da una parte infatti c’è la visione “blariana” del premier che punta alla ricomposizione tra capitale e lavoro partendo da una premessa forte: senza un sistema d’impresa robusto non ci sarà ripresa economica né lotta alla disoccupazione. Dall’altra parte, invece, ci stanno gli eredi della “ditta” secondo i quali lo sviluppo nasce dalla spesa pubblica, dal posto fisso e dalla dialettica arcigna tra padroni e operai. Quale sarà la scelta di Renzi? Cederà alle sirene che lo invitano a tornare nell’orticello della vecchia sinistra che non vuole cambiare o andrà avanti cercando lo sfondamento al centro? Su questo snodo si giocherà la partita politica dei prossimi mesi. Noi pensiamo che il premier debba proseguire anche a costo di rischiare la scissione. Senza paura della sinistra-sinistra che, si è visto anche in Liguria, può dare fastidio ma certo non può candidarsi al ribaltone. A incoraggiare il premier dovrebbero essere soprattutto le cifre sullo stato della nostra economica che pubblica in queste stesse colonne Lelio Cusimano: l’Italia è su un crinale e se perde l’equilibrio torna nel baratro.
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