ROMA. La battaglia sulle riforme segna un «punto di non ritorno» per la minoranza del Partito democratico. Su legge elettorale e ddl costituzionale questa volta si andrà fino in fondo - assicurano i bersaniani - e la risposta non potrà essere il solito, renziano, 'tiriamo dritto'.
«C'è un disagio di cui Renzi deve prendere atto», afferma Pier Luigi Bersani. L'ex segretario continua a escludere che lo scontro sui 'nominati' dell'Italicum possa portare la minoranza fuori dal partito: «Il Pd è casa mia, è casa nostra».
Ma Gianni Cuperlo si spinge fino a evocare la scissione: «È in discussione l'unità e la tenuta del Pd, Renzi ci pensi prima che sia troppo tardi». L'esame dell'Italicum e della riforma del Senato non riprenderanno con ogni probabilità prima delle regionali. Visto il possibile rinvio del voto al 31 maggio, se ne riparlerà a giugno. Ma la minoranza dem, che il 21 marzo rilancerà un'azione comune con una convention a Roma, non smetterà di invocare un cambio di rotta, le modifiche «indispensabili». Una richiesta che il premier non sembra per ora disposto ad accogliere perchè, spiegano i renziani, l'Italicum è già frutto di una lunga mediazione con la sinistra dem, che ha portato tra l'altro all'introduzione delle preferenze, che «non erano nel dna del Pd».
E il ministro Maria Elena Boschi, che ha detto di aspettarsi «lealtà» dalla minoranza Pd, ha poi alzato un muro ad alcune loro proposte di modifica all'Italicum perchè «farebbero fare un salto indietro di 20 anni» (in particolare l'accorpamento delle liste al secondo turno). Ora la levata di scudi è dunque innanzitutto «ingenerosa», sostengono sempre i renziani, perchè dimentica il dialogo e le aperture già incassate. E la minaccia di far mancare i numeri in Aula non preoccupa, «perchè abbiamo contato e ricontato - spiega un deputato - e i voti ci sono, anche senza la minoranza Pd. Anche con lo scrutinio segreto, non è affatto detto che vincano loro».
Ma il giorno dopo il voto alla Camera della riforma costituzionale, i toni più amari si registrano tra gli esponenti della sinistra dem. La scelta, spiegano, di dire sì al testo e chiedere modifiche nei passaggi successivi, non è stata compresa da molti militanti. E in più «feriscono» i toni «spregiativi» di alcuni commentatori. È «offensivo», dice Bersani, sentirsi dire che «la nostra posizione sarebbe legata alle poltrone, la mia poltrona la do volentieri a Verdini se questo è lo scambio...». In gioco c'è molto di più. Ci sono «le idee, la democrazia», dice Bersani.
Renzi non sia «arrogante» e dialoghi, sottolinea Massimo D'Alema, perchè il suo progetto rischia di rafforzare le oligarchie e anche la promessa del referendum finale rischia di essere una «finzione» se inteso come «plebiscito». «In gioco non c'è la sorte del governo ma il destino del Pd», la sua «unità, la sua tenuta», avverte Cuperlo. Che evoca la scissione, quando sottolinea che «non è in discussione il rapporto tra maggioranza e minoranza ma l'identità» stessa del partito. Una preoccupazione che Pippo Civati, l'unico finora ad aver parlato apertamente del rischio di una rottura, dice di condividere. Per qualche renziano l'uscita di Cuperlo è la conferma dell'esistenza del progetto politico 'a sinistrà che il premier intravede dietro le ultime uscite di Maurizio Landini e Laura Boldrini. Ma è un'ipotesi che Bersani smentisce seccamente.
«Il Pd è casa mia, è casa nostra», assicura l'ex segretario. E il capogruppo Roberto Speranza, che guida Area riformista, è ancor più netto: «La parola scissione non fa parte del vocabolario del Pd. Sono convinto che lavoreremo tutti, a partire da Renzi, per costruire un partito unitario». «Evocare rischi di scissione - prova a chiudere il discorso Lorenzo Guerini - è assolutamente sbagliato» perchè il confronto non è mai mancato, ma rischia anche di «disorientare gli elettori».
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