ROMA. Nè i «partitini» di maggioranza, nè Forza Italia. «Ho sempre detto che non ci ricatta nessuno». È convinto di averlo provato, Matteo Renzi. Il rinnovato sodalizio di governo con Angelino Alfano. L'azzeramento al Senato di Scelta civica, con l'approdo al Pd di otto ex montiani. Non solo parole, ma fatti. Per dimostrare a chi all'indomani del voto per il Quirinale pensava di alzare la voce, rallentare l'azione del governo, condizionarlo, che non troverà varchi. Il Pd è sempre più forte, i partiti dello «zero virgola» sempre più deboli. E al Senato, assicurano fonti Dem, un gruppo di 'responsabili' è pronto, se servirà, a dare una mano al governo. «Ho i numeri anche senza» il patto del Nazareno, ribadisce il premier. Ma aggiunge che se Silvio Berlusconi farà prevalere «il buonsenso», la porta è aperta. Da Forza Italia, però, al momento nessuna risposta. A verbale restano le profonde spaccature interne al partito del Cavaliere (per il 21 Raffaele Fitto ha indetto una convention dei «ricostruttori», in chiave antirenziana). Ma attraverso il Mattinale, la nota politica di Renato Brunetta, trapela il nervosismo per quelli che sono stati letti come «avvertimenti» di Renzi a Berlusconi: i «soldi» delle frequenze tv, che Mediaset potrebbe dover pagare per effetto di un emendamento al Milleproroghe, e i «nuovi strumenti offerti alla magistratura politicizzata» attraverso le norme in arrivo sul falso in bilancio. Sono «strumenti» che il premier sta usando, accusa il Mattinale, contro chi «non accetta la regola fiorentina della sottomissione». FI, avverte, non «si svenderà» e alzerà la voce «subito alla Camera» sulla riforma costituzionale, che è in Aula la prossima settimana. Ma certo neanche la nota di Brunetta se la sente di escludere che Berlusconi possa «ripensarci» e confermare il Patto, come al Nazareno sono persuasi accadrà. «Se Forza Italia, che ha sempre difeso» il patto sulle riforme, «adesso vuole rimangiarselo, buon appetito. Noi andiamo avanti», scrive Renzi nella sua newsletter. Ma lascia aperto un varco a ripensamenti e aggiunge che in ogni caso il suo Pd «continuerà a rispettare Berlusconi e il suo partito». Per riassorbire gli «strappi», spiega Lorenzo Guerini, c'è tempo fino a marzo, quando la legge elettorale sarà in Aula alla Camera. Parole, queste ultime, che vengono però lette dai parlamentari della minoranza Pd come una conferma del fatto che se il premier è tranquillo di avere i numeri sulla riforma del Senato, non lo è altrettanto sull'Italicum, considerato anche che si voterà in gran parte a scrutinio segreto. La richiesta della minoranza dem resta quella di modificare i capilista bloccati della legge elettorale. Per approvarla, «l'unico patto che serve è quello con la maggioranza», dice Pier Luigi Bersani, che con Gianni Cuperlo e Massimo D'Alema chiede al premier di ripartire dal Pd. Ma i renziani non si fidano: «Se dietro lo specchio dell'unità Pd si cela la volontà di bloccare le riforme, non ci siamo», dice Angelo Rughetti. A sostegno delle riforme e a blindatura del governo, spiega il senatore di Gal Paolo Naccarato, è intanto pronta al Senato un'area di «stabilizzatori». Un gruppo di senatori responsabili che, secondo i boatos, sarebbero pronti ad arrivare in soccorso da FI, Ncd, ex M5S, Gal e anche Sel. E blindare una maggioranza che è meno frammentata dopo l'ingresso nel gruppo Pd di 2 deputati e 5 senatori di Scelta civica (tutti tranne Mario Monti e Benedetto Della Vedova che uscirà da Sc senza entrare nel Pd). A questi movimenti guarda con qualche sospetto la minoranza Pd: Giuseppe Lauricella domanda se con il passaggio i centristi mirino alla «rielezione» e Pippo Civati chiede di essere «seri» e aprire una crisi di governo. «Se si vuole un partito più largo, bisogna ragionare politicamente», dice Bersani. Ma Renzi è convinto di essere sulla strada giusta: ci sono «i primi segnali di ripresa», rivendica il premier, e l'elezione di un «gentiluomo» come Sergio Mattarella al Colle ha «riscattato» il fallimento dei 101.