Mercoledì 18 Dicembre 2024

Jobs act: Renzi trova l'intesa con la minoranza del Pd, ma si scatena l'ira di Ncd

ROMA. In zona Cesarini una fumata grigia sulla trattativa sul Jobs Act concretizza l'apertura del governo alla minoranza Pd. Nessun voto di fiducia sul testo del Senato ma l'approvazione alla Camera, in tempi brevi, del testo che uscirà dalla commissione Lavoro, è la mediazione trovata su un testo che recepirà le proposte sancite nella direzione Pd, a cominciare dalla tipizzazione del reintegro per i licenziamenti disciplinari. «Un grandissimo passo avanti», è il sigillo posto dal premier Matteo Renzi che parla di «partita chiusa» e di articolo 18 «superato». Intesa che invece fa scendere immediatamente sulle barricate l'altra faccia della maggioranza, il Nuovo Centrodestra, che in serata a Palazzo Chigi vede «informalmente» il responsabile economico Dem Filippo Taddei. La giornata è convulsa, anche perchè, come anticipato da Renzi al Nazareno, i nodi stanno venendo al pettine. Poco prima della capigruppo convocata alla Camera per calendarizzare Jobs Act e legge di stabilità è Roberto Speranza, spesso cuscinetto tra la sinistra Pd e l'ala maggioritaria del partito, ad annunciare un'intesa che solo ieri sembrava inaspettata. «Non ci sarà nessuna fiducia al testo del Senato, verrà ripreso l'odg della direzione», spiega il capogruppo Pd al quale fanno subito seguito le affermazioni del vicesegretario Lorenzo Guerini («l'intesa risponde a chi voleva aprire fronti nel Pd» e poi, da Bucarest, la 'benedizionè del premier: «Bene così, andiamo avanti, il primo gennaio andranno in vigore le regole sul lavoro». Una benedizione, spiegano da Palazzo Chigi, che non va interpretata come un cedimento alle rivendicazioni della sinistra Dem. Ed è lo stesso Renzi a precisare come i margini di trattativa per la minoranza siano finiti: «la partita è chiusa si voterà a ore». Il timing - rapidissimo - e l'avvicendarsi in Aula della riforma del lavoro e della legge di stabilità rispettano infatti le intenzioni del premier: il voto finale sul Jobs Act sarà entro il 26 novembre, per il giorno dopo è previsto invece l'approdo della legge di stabilità. E resta tutt'altro che escluso, come ribadisce Renzi, che sul nuovo testo della commissione sia messa la fiducia. Ma la mediazione trovata  sembra per ora bastare ad una buona fetta della minoranza. Si tratta di «modifiche vere, di contenuto, positive e che migliorano la delega, non solo sull'annosa questione dell'art. 18», sottolinea Cesare Damiano, tra i protagonisti della negoziazione. E anche Stefano Fassina appare soddisfatto: «il governo prende atto del ruolo del Parlamento». Ma l'intesa trovata con il gruppo Pd in commissione - «non è un accordo con la minoranza», precisa lo stesso Guerini - vede subito insorgere Ncd, a partire da Maurizio Sacconi, che chiede un vertice di maggioranza. E in serata è lo stesso Sacconi, con Nunzia De Girolamo, a recarsi a Palazzo Chigi per un chiarimento informale. Incontro che, se da un lato serve a mitigare l'ira di Ncd dall'altro non basta a chiudere la frattura. «Si tratta, la partita è aperta», è il warning lanciato da Sacconi che preannuncia nuovi incontri della maggioranza sul tema. Incontri che, tuttavia, difficilmente potranno mettere in dubbio quel punto di caduta trovato oggi sull'art.18, in particolare sulla tipizzazione del reintegro dei licenziamenti disciplinari.  Ma il sentiero in cui dovrà muoversi Renzi da qui a fine anno non è solo economico. «Non possiamo partecipare al Patto del Nazareno e anche al patto del gambero» sul Jobs Act, sottolinea De Girolamo evocando l'incrocio tra legge elettorale e Jobs Act che vede il premier stretto tra maggioranza, FI e sinistra Pd. Ed è soprattutto sul primo punto che Ncd difficilmente farà concessioni laddove sulla riforma del lavoro è cambiato il punto di partenza, il testo del Senato, ma non è certo sfumato un dibattito che, in commissione e in Aula si preannuncia intricatissimo.

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