Giovedì 19 Dicembre 2024

Job act, Renzi contro sindacati e minoranza del Pd: "Il testo non si cambia"

ROMA. Nessun margine di trattativa: Matteo Renzi tiene il punto sul Jobs act. «Il sindacato fa il suo lavoro: in bocca al lupo. Ma noi andiamo avanti perchè il nostro obiettivo non fare una battaglia politica ma far ripartire l'Italia e su questo non molliamo di un millimetro». Lo dice il premier Matteo Renzi in un'intervista al Tg5. È l'ora di finirla con le solite discussioni del passato. Credo che la scissione non ci sarà. Chi la minaccia o la ipotizza non si rende conto di quanto non sarebbe capita e sarebbe respinta dagli iscritti, dai volontari delle feste dell'Unità, dagli amministratori, perciò penso che non ci sarà» aggiunge  il premier Matteo Renzi nell'intervista telefonica al Tg5. «La delega sul lavoro alla Camera non cambierà rispetto al Senato», la riforma del lavoro è blindata e avverte, se qualcuno del Pd non dovesse votare la fiducia: «Facciano pure, se lo fanno per ragioni identitarie», ma «se mettono in pericolo la stabilità del governo o lo fanno cadere» allora «le cose naturalmente cambiano». Parole nette che il premier affida a Bruno Vespa che sta mandando in stampa la consueta strenna letteraria natalizia. Il premier è netto anche sul rapporto con la leader Cgil Susanna Camusso, non è «questione di feeling» ma di «diversa idea del Paese». La minoranza Pd, dal canto suo, resta basita: confidano nel fatto che le dichiarazioni di Renzi siano «datate» come logico che sia per un libro che esce a giorni. Ma da fonti vicine a palazzo Chigi si fa sapere: le dichiarazioni sono abbastanza recenti da poter essere considerate d'attualità. Sia come sia, il messaggio che filtra dal governo resta dunque quello della fermezza. È ferma la reazione della minoranza del partito. Sulla quale il giudizio del premier non è certo tenero: insegue la sinistra radicale, dice, in nome di una «purezza delle origini» che di certo «non è destinata a cambiare l'Italia». Di più: «Il sonno me lo tolgono le crisi industriali, i disoccupati, certo non Vendola o Landini». Insomma chi vuole andare via è libero di farlo: «Faccia pure: non mi interessa».   Il segretario della Fiom, ormai sempre più candidato a incarnare l'anti-Renzi, è tutt'altro che intimorito e dichiara guerra al governo. «Noi abbiamo la maggioranza dei consensi. Bisogna convincere Renzi che contro il lavoro non va da nessuna parte» avverte Landini che annuncia due proteste di piazza dei metalmeccanici solo a novembre. «Metteremo in campo qualsiasi azione possibile sindacale e legale dentro e fuori le fabbriche» avvisa il leader delle tute blu mettendo in guardia il premier: «Il governo può anche chiedere e ottenere la fiducia. Ma noi non abbiamo alcuna intenzione di fermarci». La questione della fiducia, però, mette in crisi la minoranza che conta di trovare una mediazione per migliorare il testo sia della delega su lavoro, sia della legge di stabilità. «Se Renzi è convinto che la delega debba essere approvata così com'è alla Camera, magari con il voto di fiducia, io sono dell'avviso contrario» protesta il presidente della Commissione lavoro ed esponente della sinistra Pd, Cesare Damiano che ribadisce: «È assolutamente necessario correggere contraddizioni e limiti della legge di stabilità e migliorare la delega sul lavoro» che, «come minimo, deve tutelare le nuove assunzioni nel caso di licenziamenti discriminatori e disciplinari non giustificati». Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio, è più diretto: «Se non dovesse esserci nel testo neanche la scelta della direzione del Pd sarebbe molto grave; io personalmente non voterei quel testo». E Pippo Civati avverte: se non c'è dialogo i no alla fiducia potrebbero crescere: «Se sono pochi è un fatto disciplinare ma se sono centinaia è un problema politico gigantesco». Tutti si augurano comunque che la posizione di Renzi possa ammorbidirsi: «Tenendo conto del clima sociale che c'è nel Paese, sarebbe irresponsabile blindare la delega alla Camera e non consentire le necessarie correzioni», afferma Alfredo D'Attorre. E anche Stefano Fassina punta l'indice sulla fiducia («È un segnale di debolezza politica, grave sul piano costituzionale»), trovando una sponda nell'azzurro Renato Brunetta: la fiducia «è una inaccettabile forzatura» che «distrugge il Parlamento».

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