ROMA. La parola «trattativa» non è stata mai pronunciata. Nè dai pm, saliti al Colle per sentire Napolitano, nè dai legali. La Procura, però, c'è girata attorno. Ha tirato fuori gli «indicibili accordi» citati nella drammatica lettera con cui l'ex consigliere giuridico del capo dello Stato, a giugno del 2012, rassegnò le dimissioni dopo la campagna di stampa seguita alla diffusione delle sue intercettazioni con l'ex ministro Nicola Mancino. «Sa a cosa si riferiva D'Ambrosio, le parlò mai dell'argomento?», gli ha chiesto il procuratore aggiunto Vittorio Teresi che, nella criptica espressione «indicibili accordi», vede una possibile allusione alla trattativa. Il presidente della Repubblica è stato secco. «Non me ne parlò. Non discutevamo del passato. Guardavamo al futuro».
Chi ha assistito alla deposizione del presidente al processo sul patto tra pezzi dello Stato e boss parla di un Napolitano disteso, collaborativo, pronto a rispondere a tutte le domande senza avvalersi delle prerogative costituzionali di cui gode e spesso ricordategli dalla corte. Una disponibilità piena andata oltre i paletti messi dal collegio: più volte Napolitano ha voluto rispondere nonostante i giudici avessero ritenuto inammissibili i quesiti posti. Entrato per ultimo nella sala del Bronzino, è stato accolto dal saluto della corte e delle parti che si sono alzati in piedi al suo ingresso. Poi ha preso posto davanti a uno scrittoio al lato del collegio. A prendere la parola per primo è stato il procuratore di Palermo Leonardo Agueci. Una presenza quella del capo dei pm decisa dopo scontri interni violenti: alcuni dei magistrati del pool trattativa hanno fino all'ultimo ripetuto di non volerlo al Colle per non dare l'impressione di essere commissariati. «Sono qui per rispetto al presidente, all'atto che sta per compiere e alla verità che stiamo cercando», ha detto Agueci che, al termine dell'udienza, si è detto soddisfatto della collaborazione ricevuta e certo dell'utilità della deposizione. Le prime domande le ha fatte il procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
«Chi era D'Ambrosio, quali erano i vostri rapporti, quali incarichi ricoprì?». Il capo dello Stato ha ricordato l'inizio della conoscenza con l'ex consigliere e l'avvio della collaborazione descrivendolo come un «fedele servitore dello Stato», amareggiato e scosso dalle polemiche nate dalle notizie sulle sue telefonate con l'ex ministro Mancino. La voce non si è mai incrinata. «Ci davamo del lei, il nostro era un rapporto di lavoro», ha detto. Poi di nuovo la smentita di avere appreso dal consigliere riferimenti ad accordi più o meno oscuri. «Se le sue fossero state più che ipotesi - avrebbe risposto Napolitano - sarebbe andato a riferirne alla magistratura». Ma i pm sono andati oltre, toccando il 1993, un anno fondamentale per l'impianto accusatorio. L'anno in cui, per la procura, le bombe portarono lo Stato alla capitolazione culminata nelle revoche di oltre 300 provvedimenti di 41 bis per i capimafia. Napolitano avrebbe ricostruito tutto il periodo partendo dalle stragi di Capaci e via D'Amelio, ricordando che mai le forze politiche si divisero sulla esigenza di dare un segnale al «nemico mafioso» anche attraverso la normativa sul carcere duro che era in via di conversione.
A prendere la parola per i pm nella seconda parte della deposizione è stato Nino Di Matteo che ha chiesto a Napolitano se seppe mai della richiesta di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, per i magistrati tra i protagonisti della trattativa, di essere sentito dall'Antimafia. «Me lo disse Violante - avrebbe risposto il capo dello Stato - ma non mi spiegò perchè poi non lo convocarono». Delle stragi del '93 il presidente ha avuto un ricordo chiaro. Rammentando le fibrillazioni istituzionali di quel periodo, il rischio golpe di cui gli parlò Ciampi, e - passaggio che i pm ritengono importante - la sensazione che si ebbe: cioè che l'ala oltranzista di Cosa nostra stesse perseguendo una strategia volta a dare un aut aut allo Stato. Aspetto sottolineato da Di Matteo a Servizio Pubblico. «In una domanda noi abbiamo utilizzato proprio il termine 'ricatto di Cosa Nostrà nei confronti delle istituzioni - ha spiegato - e il teste ha confermato che quella era l'immediata percezione».
L'allarme del Sismi su un rischio di attentati a lui e Spadolini - argomento recentemente entrato nel processo - a Napolitano venne comunicato. «Parisi me lo disse - avrebbe risposto - invitandomi alla cautela»: Ma il capo dello Stato, che aveva l'esperienza degli anni del terrorismo, avrebbe accolto la notizia con imperturbabilità rifiutando anche il potenziamento della scorta. Dopo i pm è toccato al difensore di parte civile del Comune di Palermo e ai legali di Nicola Mancino e, in ultimo, del boss Totò Riina, ammesso dai giudici a interrogare il presidente come suo teste.
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