ROMA. Che non stiano facendo solo «ammuina», come li accusa Matteo Renzi, gli esponenti della minoranza Pd hanno intenzione di dimostrarlo presto. Sul lavoro si gioca, sono convinti, l'identità di sinistra del Partito democratico. Perciò sono pronti a dare battaglia fino in fondo per correggere il Jobs act: la delega del governo così com'è non è votabile, spiegano. Tanto che Pier Luigi Bersani arriva a ventilare la «libertà di voto» in Parlamento. Non ce ne sarà bisogno, assicurano gli esponenti di Area riformista, convinti che i loro emendamenti saranno almeno in parte accolti. Ma Renzi torna a sfidarli a muso duro, alimentando uno scontro che, sostiene Pippo Civati, mette «a rischio la tenuta del Pd». «Nel mio partito c'è chi pensa» che dopo il 40,8% alle europee «si possa far finta che non è cambiato niente con l'idea che 'si mette li' Renzi a far la foglia di fico, tanto poi continuiamo noi a governarè». Ma «sono cascati male», avverte il segretario-premier. Valeva a luglio per le riforme, vale adesso per il lavoro, così come varrà per l'intero percorso dei Mille giorni. Non si accettano fronde: lunedì 29 Renzi indicherà la linea sul lavoro e dopo il voto della direzione tutti dovranno adeguarsi. Il premier spiega di non voler tradire il mandato ricevuto dagli elettori alle europee: è un mandato per il «cambiamento», da portare avanti a dispetto della «vecchia guardia». Ma è proprio questo l'argomento che più di tutti irrita la minoranza Pd. «Con la mia storia conservatore non me lo dice», scandisce Pier Luigi Bersani al Tg1. Poi sibila: «Vecchia guardia posso accettarlo, ma più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini chi c'è? Vedo che loro sono trattati con educazione e rispetto, spero che prima o poi capiti anche a me». L'attenzione e la considerazione che il premier ha mostrato verso l'altro contraente del patto del Nazareno, notano gli esponenti della sinistra dem, appare maggiore di quella che rivolge al suo stesso partito. Con il rischio di scivolare, accusa da giorni Stefano Fassina, verso una politica sul lavoro che sa di «destra». «Anche nel Pd - attacca Vannino Chiti - c'è chi pensa che chi ci sia una sola innovazione» e invece c'è «un'innovazione di destra e un riformismo di sinistra». Al bivio tra le due modalità del cambiamento, sostiene Chiti, «si gioca il futuro del Pd come grande forza di sinistra plurale». E anche un trentenne, non iscrivibile alla «vecchia guardia», come Roberto Speranza, avverte Renzi che «proprio per restare al 40% ci vogliono alcune modifiche al Jobs Act». Domani pomeriggio i bersaniani di Area riformista si vedranno al Senato con cuperliani, civatiani e chitiani per scrivere insieme gli emendamenti alla delega sul lavoro. Martedì mattina alla Camera Area riformista, che si rivedrà la sera per discutere anche di legge di stabilità, proverà a tirare le fila nella minoranza dem, in una riunione cui sono invitati anche bindiani e lettiani. La battaglia, assicurano i protagonisti, è appena all'inizio. Il confronto deve essere nel merito della riforma, spiegano. E se Renzi lo rifiuterà si potrebbe anche arrivare alle estreme conseguenze di non votare il provvedimento. «Così come c'è stata libertà di voto sul Senato, credo che ci sia anche su un tema delicato come il lavoro», dice Bersani. Ma spiega che non è questo il tema al momento: «Io sono fiducioso che al di là delle asprezze, si trovi un punto di convergenza ed equilibrio». I renziani, però, sono già in allerta: «La libertà di voto - dicono i deputati Bonaccorsi, Gelli e Magorno - sarebbe un attacco al partito. Una volta che viene indicata una strada, tutto il partito ha il dovere di seguirla», così come la minoranza renziana seguì la via del no alla mozione Giachetti sul Mattarellum, quando i bersaniani erano ancora maggioranza.