ROMA. La parola "cacciare" non la dice in pubblico, ma è esattamente quello che Silvio Berlusconi vorrebbe fare con Gianfranco Fini. In ogni caso la sua minaccia alla terza carica dello Stato è chiara: se non si allinea è fuori dal Pdl. In questo è convinto di essere sostenuto dal testo che riesce a far approvare a larga maggioranza, schiacciando i 'finiani' nell'angolo. Un documento che recita: le decisioni sono prese a maggioranza e sono vincolanti per "chiunque faccia parte del Pdl". Tradotto: chi sgarra è fuori dal partito.
Ma il presidente della Camera non ci pensa proprio a farsi da parte. Lo dice in pubblico, ma anche in privato. "Non ho nessuna intenzione di lasciare la presidenza della Camera, né tantomeno il partito: ho pieno diritto di porre questioni politiche". L'obiettivo, spiegano apertamente i suoi, è quello di fare una "minoranza politico-culturale" all'interno del Pdl. Non una corrente per avere posti, ma "un'area" dentro il partito. Questioni semantiche che non spostano i termini della questione: Fini non intende retrocedere.
L'epilogo della Direzione Nazionale va ben oltre qualsiasi più nera previsione: la frattura appare ormai definitiva. Anche perché va in onda in diretta, sotto l'occhio delle telecamere.
E nessuno dei due ora può fare marcia indietro. Non può Fini. Non a caso i fedelissimi gli attribuiscono frasi al vetriolo: il partito non è un'azienda, non può licenziarmi come se fossi un suo dipendente. Anzi, il presidente della Camera preannuncia battaglia e lo dice apertamente a Sandro Bondi che poi riferirà: mi ha detto che intende fare scintille in Aula.
Ed è proprio quello che Berlusconi teme. La "guerriglia" dentro il Parlamento. Una continua conta di 'finiani' e 'lealisti'. Un incubo. Ma contro questa balcanizzazione del Pdl, il Cavaliere pensa di avere un asso nella manica: il documento votato in Direzione, appunto. Certo avrebbe preferito un finale diverso: sarebbe stato meglio se mi avesse detto 'me ne vado', ha confidato il premier ai più stretti collaboratori. Un ragionamento che prosegue così: ma non ci pensa proprio vuole restare e logorarmi, ma io non ho nessuna intenzione di lasciarglielo fare e ora, grazie al documento approvato, ho lo strumento per sbattere fuori dal partito chi non si allinea alle decisioni.
L'interpretazione data del premier è chiara: e non vale solo per l'aula. Non pensino di andare in televisione a remare contro - ha ragionato con i più stretti collaboratori - come hanno fatto finora i vari Italo Bocchino o Adolfo Urso: perché non starò a guardare, mentre mettono alla berlina il partito. Se lo fanno, sono fuori. Il Cavaliere è convinto che questo possa scoraggiare molti 'finiani'. Gli altri si convinceranno. Ecco perché è fiducioso che il governo possa andare avanti anche in caso di strappo definitivo. Se così non fosse, è il suo monito, vi sarebbe una sola via d'uscita: il voto anticipato. L'analisi del voto sul documento comunque lo conforta. Giudica "devastanti" i risultati per Fini che porta a casa un misero 6%. Con questi numeri, si è chiesto, come si fa a continuare a rivendicare per sé la presidenza della Camera? Intanto la resa dei conti è già cominciata: fra i 'berlusconiani' è già partita: i 'berlusconiani' meditano un documento di sfiducia contro Italo Bocchino.
Sul fronte degli alleati, i vertici del Carroccio per il momento stanno a guardare, con una certa preoccupazione per l'esito della delicata partita delle riforme. L'unico ad esprimersi è Roberto Castelli. Per il leghista, l'ex leader di An ha "tradito" il patto con gli elettori.
E chi fra i berlusconiani pensa di poter sostituire i finiani con l'Udc rischia di rimanere deluso: Lorenzo Cesa, segretario dei centristi, sottolinea infatti che "da due anni l'Udc dice le stesse cose sostenute da Fini". Come dire: con noi dentro la maggioranza la musica cambierebbe poco. Il Quirinale non si esprime, ovviamente. Ma dal Colle, trapela che il capo dello Stato osserva attentamente la situazione.