Domenica 17 Novembre 2024

Hamas: «Non sappiamo quanti ostaggi siano vivi né dove»

Le trattative per una tregua a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani proseguono su un ottovolante ormai da settimane. Un accordo prima del Ramadan, a meno di svolte improvvise, appare al momento ancora difficile, con Hamas che sembra temporeggiare e nonostante le pressioni crescenti su Israele che arrivano anche dagli Stati Uniti: la vicepresidente Kamala Harris ha invocato «un immediato cessate il fuoco di almeno 6 settimane», attirandosi le critiche di parte del governo di unità israeliano. L’Egitto, dove da due giorni si tengono i colloqui con i mediatori Usa e Qatar ma senza Israele, ha parlato in mattinata di «progressi tangibili» nei negoziati. Poi la frenata di Hamas secondo cui «non ci sono reali progressi» perché, è la versione della fazione palestinese, Israele non dà «risposte chiare» riguardo, in particolare, al cessate il fuoco, al ritiro dalla Striscia di Gaza e al ritorno degli sfollati. Hamas «insiste su queste richieste prima di prendere qualsiasi posizione sugli ostaggi israeliani», ha fatto sapere un alto funzionario della fazione palestinese. Ma qui arriva il corto circuito: Hamas chiede la liberazione di un certo numero di detenuti palestinesi, compresi 20 condannati all’ergastolo, per il rilascio degli ostaggi, ma sostiene al tempo stesso di non sapere quanti rapiti siano ancora vivi né dove si trovino. «Fino ad ora non abbiamo presentato alcuna lista» di nomi a Israele, perché «prima di tutto, tecnicamente e praticamente, ora è impossibile sapere esattamente chi è ancora vivo e chi è stato ucciso a causa dei bombardamenti israeliani o chi è morto per fame a causa del blocco israeliano», ha spiegato in un’intervista alla Bbc, Basim Naim, funzionario politico di Hamas. Anzi, nella sua visione, la tregua invocata servirebbe proprio a rintracciarli: «Si trovano in zone diverse, tenuti da gruppi diversi, e quindi abbiamo chiesto un cessate il fuoco per poter raccogliere le informazioni», ha dichiarato. Non è la prima volta che Hamas sostiene di aver perso le tracce di ostaggi, rapiti da altri gruppi armati della Striscia o uccisi nei raid israeliani, creando una macabra suspense, soprattutto tra i familiari in attesa di riabbracciarli, per giocare al rialzo nell’avanzare richieste in cambio del loro rilascio: tra le ultime anche quella di un rientro graduale della popolazione civile a nord di Gaza, con circa 500 famiglie al giorno per tutta la durata della tregua. Ora «la palla è nel campo di Israele», ha fatto sapere Hamas, che pretende una “risposta decisiva» entro il Ramadan, che comincerà domenica 10 marzo. Il tutto nel silenzio di Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza che dovrebbe avallare l’eventuale accordo e che, secondo il Wall Street Journal, da almeno una settimana non comunica con i vertici impegnati nei negoziati, forse nel tentativo di ritardare l’intesa alla prossima settimana e aumentare le tensioni proprio durante il mese sacro per i musulmani. Anche in Israele le frange più dure del governo di emergenza, l’estrema destra di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir, si oppongono a un cessate il fuoco e attaccano Benny Gantz, anche lui membro del gabinetto di guerra, volato negli Stati Uniti «su sua richiesta» e senza il consenso del premier Benyamin Netanyahu. «Gantz è un anello debole» nel governo e «si presta al gioco dell’amministrazione Biden: in pratica sostiene il loro progetto per la costituzione di uno Stato palestinese», ha tuonato il ministro delle Finanze e leader di Sionismo Religioso, intimando all’ex premier ed ex capo di stato maggiore di esprimere solo posizioni in linea con quelle del governo. Di fronte ai ritardi dell’Onu nel condannare gli stupri commessi da Hamas il 7 ottobre, Israele ha intanto richiamato il suo ambasciatore al Palazzo di Vetro, Gilad Erdan, per consultazioni. Subito dopo proprio le Nazioni Unite hanno diffuso un rapporto in cui si afferma che vi sono «buone ragioni per credere» che vi siano state violenze sessuali durante gli attacchi ai kibbutz e si parla di «informazioni chiare e convincenti» secondo le quali alcuni degli ostaggi a Gaza sarebbero stati violentati. Mentre l’Idf è tornato ad accusare l’Unrwa, l’agenzia per i rifugiati palestinesi, di complicità con i terroristi palestinesi: secondo l’esercito israeliano, sono oltre 450 gli impiegati dell’organismo delle Nazioni Unite che «appartengono a organizzazioni terroristiche della Striscia di Gaza». L’Unrwa da parte sua ha accusato le autorità israeliane di aver torturato alcuni membri del suo staff durante gli interrogatori e ha cercato di difendersi, davanti all’Assemblea generale, dalle denunce che le sono già costate il congelamento dei finanziamenti di diversi Paesi, in un momento drammatico per la popolazione palestinese. Anche l’Italia intanto sta lavorando “per coordinare e favore l’invio di aiuti umanitari», con il lancio dagli aerei o con i camion attraverso il valico di Rafah, ha fatto sapere il ministro degli Esteri Antonio Tajani, auspicando una riunione dei rappresentanti delle agenzie Onu presenti a Roma «nei prossimi giorni». Nella foto i familiari degli ostaggi

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