Non c’erano i margini per una dichiarazione finale condivisa da tutti: per i Paesi arabi non si poteva condannare Hamas senza usare la stessa espressione per Israele, e il ragionamento valeva al contrario per i leader occidentali. Così il summit per la pace del Cairo sulla crisi in Medio Oriente riesce a metà, con il suo promotore, Abdel Fattah al-Sisi, che un paio di obiettivi però li raggiunge: restituisce all’Egitto la possibilità di avere ruolo negoziale che rischiava di perdere a favore delle nazioni del Golfo, e mette le basi per costruire una nuova road map verso la soluzione con due popoli e due Stati.
Quando i leader e rappresentanti di oltre trenta Paesi prendono posto nell’enorme tavolo con al centro il simbolo di una colomba bianca, a Rafah, a 300 chilometri di distanza, da un paio d’ore i camion hanno ripreso a portare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Per Giorgia Meloni è anche un effetto del vertice organizzato dal presidente egiziano in grande fretta, con adesioni definite solo all’ultimo e comunque di buon livello diplomatico.
Certo, manca la voce di Israele, e gli Stati Uniti mandano solo l’incaricata d’affari in Egitto. Ma si sente forte e chiara quella del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che ha diversi incontri bilaterali (anche con Meloni e Pedro Sanchez), denuncia la «barbara aggressione» israeliana e avvisa: «Non lasceremo mai la nostra terra». Ci sono i primi ministri di Spagna, Italia, Grecia e il presidente di Cipro, mentre Germania, Francia e Regno Unito schierano i ministri degli Esteri. Poi c’è il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, secondo cui Israele deve esercitare il diritto ad autodifendersi «nella cornice della legge internazionale», e la comunità internazionale «deve supportare l’Autorità palestinese». E c’è anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che lancia l’appello per «un cessate il fuoco umanitario», dopo aver assistito poche ore prima, a Rafah, «al paradosso di camion pieni da una parte e stomaci vuoti dall’altra».
Al-Sisi esorta gli altri leader a «lavorare insieme su una nuova road map che metta fine alla crisi umanitaria», perché è necessario «stabilire negoziati che aprano la via a una soluzione a due Stati». L’idea è condivisa in buona parte degli interventi, seppur con toni diversi e i classici distinguo. Gli europei puntano soprattutto sulla necessità di condannare Hamas e distinguere la sua causa da quella palestinese. Germania, Francia e Italia annunciano aiuti economici per la Striscia di Gaza, così come Giappone e Canada. Sull’altro fronte, la Giordania parla di «crimini di guerra» da parte di Israele, Libia e Brasile di «occupazione», la Turchia accusa il governo di Benjamin Netanyahu di «colpire ospedali», e il primo ministro iracheno Mohammed Shià Al Sudani parla di «genocidio». E da più parti vengono invocati i confini palestinesi del 1967.
Alla fine gli sforzi diplomatici per una dichiarazione finale sono vani. C’è solo il comunicato della presidenza egiziana. Secondo alcune ricostruzioni il testo finale un pò meno filo-palestinese rispetto alle prime bozze. Non c’è l’impegno al cessate il fuoco. L’Egitto, si legge nella nota, «ha cercato di costruire un consenso internazionale che trascende le culture, le razze, le religioni e le posizioni politiche, il cui nucleo è costituito dai valori dell’umanità e dalla sua coscienza collettiva che rifiuta la violenza, il terrorismo e l’uccisione illegale» di esseri umani e «chiede la fine della guerra in corso che ha causato la morte di migliaia di civili innocenti sia da parte palestinese che israeliana». Le prossime settimane diranno se questo summit è il punto di partenza verso una soluzione. E se l’Egitto saprà mantenere il suo ruolo negoziale, legato in parte anche alla presenza di ostaggi internazionali nella vicina Striscia di Gaza.
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