Venerdì 22 Novembre 2024

Putin mai così debole, resa dei conti al Cremlino

Vladimir Putin

Una tregua che allontana il pericolo immediato di una guerra civile, ma che non risolve la questione di fondo: la spaccatura emersa nelle stanze del potere russo che rischia di indebolire Vladimir Putin come mai nei suoi 23 anni alla guida del Paese. È questa l’interpretazione che la maggior parte degli osservatori dà dell’accordo con Yevgeny Prigozhin che ha messo fine alla marcia su Mosca dei suoi manipoli. E ad aggravare l’incertezza è il silenzio mantenuto dal presidente nelle ultime ore. «Per Putin è l’inizio della fine, è in un grosso guaio in questo momento», ha sentenziato dall’estero Mikhail Kasyanov, ex primo ministro durante la prima presidenza Putin (2000-2004), poi diventato suo oppositore e ora visto da qualche osservatore a Mosca come il candidato che alcuni Paesi occidentali vedrebbero volentieri al Cremlino in una nuova Russia. Scenari da fantapolitica, almeno per ora. Ma giudizi non dissimili vengono espressi dalle cancelliere sulle due sponde dell’Atlantico: dal segretario di Stato americano Antony Blinken, per il quale «la crisi rivela crepe nel sistema di potere di Putin», al presidente francese Emmanuel Macron, che scorge nella rivolta della Wagner «le divisioni e le fragilità che esistono nel campo russo». Mentre i miliziani ribelli hanno completato il ritiro da tutte le regioni russe, il Cremlino ha fatto sapere che il presidente è tornato a parlare oggi al telefono con il suo omologo bielorusso, Alexander Lukashenko, che ieri ha fatto da mediatore per raggiungere l’accordo di pace. Ma nulla si sa su cosa si siano detti, né sul futuro di Prigozhin, che in base all’intesa deve raggiungere Minsk. Sempre sul piano internazionale, Mosca ha incassato il sostegno della Cina, che in una dichiarazione del ministero degli Esteri ha assicurato di appoggiare la Russia «nel mantenimento della stabilità nazionale». Un comunicato emesso poche ore dopo che il vice ministro degli Esteri russo Andrei Rudenko si era recato a Pechino per colloqui con il capo della diplomazia cinese, Qin Gang. Dopo il discorso di cinque minuti alla nazione ieri mattina, in cui avvertiva che i «traditori» sarebbero stati puniti, Putin però non è più apparso in pubblico. Oggi sono stati diffusi degli estratti di un’intervista con il programma televisivo «Mosca. Cremlino. Putin» realizzata il 21 giugno, tre giorni prima del blitz, nella quale lo zar afferma che la sua «attenzione prioritaria» è sempre diretta al conflitto in Ucraina. E il suo portavoce, Dmitry Peskov, ha ribadito che «l’operazione continuerà» senza cambiamenti nonostante l’ammutinamento di Prigozhin. Resta anche il mistero su quello che Putin potrebbe essere stato costretto a cedere per assicurarsi la resa di Prigozhin, che da tempo chiedeva la testa del ministro della Difesa Serghei Shoigu e del capo di Stato maggiore Valery Gerasimov. «Non so nulla di possibili cambiamenti a questo riguardo», ha tagliato corto Peskov. E Antony Blinken ha confermato: «Al momento - ha fatto sapere - non abbiamo notizia di nessun capo militare cacciato da Putin. Bisognerà aspettare le prossime settimane per capire gli sviluppi». Si continua intanto a discutere sugli aspetti oscuri di quanto accaduto, e in particolare come le milizie di Wagner abbiano potuto impossessarsi di Rostov senza colpo ferire e marciare quasi indisturbati per centinaia di chilometri verso nord. Tanto più che, secondo fonti di intelligence Usa citate dal Washington Post, Putin era stato informato delle intenzioni di Prigozhin «almeno un giorno prima». Perché allora non ha fatto nulla? Qualcuno, come l’ex giornalista della radio Echo di Mosca Yulia Latinina, nota negli ambienti dell’opposizione, si spinge ad ipotizzare che tutta la vicenda fosse una montatura, una trappola per indurre gli ucraini a gettare tutte le loro forze nella controffensiva scommettendo sul cedimento interno dei russi, per poi venire massacrati. Una tesi rifiutata dalla quasi totalità degli esponenti dell’opposizione e del governo. Se Putin ha mostrato prudenza, ha assicurato Peskov, è stato solo per «evitare un bagno di sangue». Un rischio molto concreto, visto anche l’arrivo a Rostov delle forze speciali del comandante ceceno Ramzan Kadyrov, che si era dichiarato pronto a «schiacciare» i rivoltosi.

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