Le ore sono ormai diventate giorni, azzerando le speranze che il mare possa restituire nuovi superstiti del naufragio di Pylos, a sud del Peloponneso. La conta dei sopravvissuti è inesorabilmente ferma a 104, così come quella dei corpi recuperati, ancora 78. Tra le persone salvate, 71 sono arrivate nella struttura di accoglienza di Malakasa, tra cui 8 minori non accompagnati. Nelle profondità dell’Egeo, però, potrebbero esserci altri 600 corpi, compreso quelli di «un centinaio di bambini» che si trovavano nella stiva del peschereccio. Chi c’era racconta che «stavano dormendo» mentre si compiva quella che «sembra essere la tragedia più grande nel Mediterraneo», per usare le parole della commissaria Ue agli Affari interni, Ylva Johansson. Una fregata della Marina ellenica, un elicottero e tre navi continuano a operare nell’area dove il peschereccio si è inabissato ma sono le ultime ore di ricerca. Per le indagini sulle responsabilità, invece, siamo ancora all’inizio: la magistratura di Atene ha appena aperto un’indagine. Nella ricostruzione dei greci, l’aereo di Frontex è il primo ad avvistare il peschereccio alle 9.37 di martedì, avvertendo i centri di coordinamento vicini, tra cui quello italiano: la nave, però, si trova nella zona Sar di competenza greca, da cui vengono mandati due mercantili come primo soccorso. Dopo le indiscrezioni di stamattina, la Guardia costiera ha confermato che circa tre ore prima che la nave dei migranti andasse a fondo “una nostra motovedetta si è avvicinata e ha calato una piccola corda per accertarsi delle sue condizioni». Un’operazione “durata alcuni minuti», interrotta «dopo che la piccola imbarcazione è stata slegata dagli stessi migranti». Le autorità greche avrebbero continuato a monitorare la situazione a distanza, anche se i migranti avevano «rifiutato qualsiasi assistenza dichiarando di voler proseguire il viaggio» verso le coste italiane. Un mancato intervento inaccettabile, non solo per Alarm phone e per l’attivista Nawal Soufi, che per prima aveva ricevuto la chiamata di soccorso e smentisce la ricostruzione dei greci, ma anche per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Il dovere di soccorrere le persone in pericolo in mare è una norma fondamentale «indipendentemente dalla loro nazionalità, dallo status o dalle circostanze in cui si trovano, anche su navi non idonee alla navigazione», così come «dalle intenzioni di coloro che si trovano a bordo», hanno fatto sapere in una nota congiunta. Anche Niko Spanos, ex funzionario della Guardia costiera ellenica, si è scagliato contro l’operato delle autorità greche, perché «quando vedi annegare le persone non stai a guardare il motivo per cui hanno rifiutato l’aiuto». Sul peschereccio Adriana, partito vuoto dall’Egitto e fermatosi nel porto libico di Tobruk per caricare persone, c’erano anche gli scafisti. Nove uomini egiziani che adesso sono stati fermati e condotti davanti al pubblico ministero di Kalamata con l’accusa di aver costituito un’organizzazione criminale per l’ingresso illegale di migranti, di aver causato un naufragio e di aver messo in pericolo delle vite. Otto sono detenuti presso la stazione di polizia di Kalamata, mentre il nono rimane sotto sorveglianza in ospedale. Persone che hanno fatto pagare tra i 4 e i 6 mila dollari un biglietto per un viaggio della speranza che si è trasformato in uno della morte, come troppo spesso accade. Un sacrificio compiuto da chi spera di trovare un futuro migliore al di là del Mediterraneo, come gli oltre 120 siriani partiti dalla martoriata provincia di Deraa. Molti di loro sono ora dispersi, sepolti da oltre 4.000 metri di mare.