Un fedelissimo del presidente Alexander Lukashenko, abile diplomatico capace di difendere l’alleanza con la Russia ma cercando di tenere aperti i canali di dialogo con l’Occidente. Una figura complessa - ed emblematica della delicata posizione del suo Paese - quella di Vladimir Makei, il ministro degli Esteri bielorusso morto improvvisamente all’età di 64 anni nel pieno del conflitto ucraino. Nessuna spiegazione ufficiale è stata fornita sulle cause del decesso, che ha subito scatenato una ridda di ipotesi e reazioni contrastanti. «Ci sono voci secondo cui potrebbe essere stato avvelenato», ha scritto subito su Twitter Anton Gerashchenko, consigliere del ministero dell’Interno ucraino. La ragione sarebbe che Makei «era considerato un possibile successore di Lukashenko» e «uno dei pochi a non essere sotto l’influenza russa», aggiunge Gerashchenko, personaggio attaccato in passato da giornalisti e attivisti per i diritti umani ucraini per il suo sostegno a Myrotvorets, un database anonimo che ha stilato liste di proscrizione di oltre 4.000 reporter ucraini e stranieri non graditi, complete di numeri di telefono e indirizzi. Da parte sua, la leader in esilio dell’opposizione bielorussa, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha definito Makei «un traditore» per il fermo sostegno dato nel 2020 alla repressione delle manifestazioni di protesta per la contestata rielezione alla presidenza di Lukashenko, che riteneva ispirate dall’Occidente. «Makei ha tradito il popolo bielorusso e sostenuto la tirannia, è così che il popolo bielorusso lo ricorderà», ha affermato Tsikhanouskaya, Lukashenko, ha fatto sapere laconicamente l’agenzia bielorussa Belta, ha espresso le sue condoglianze alla famiglia e agli amici di Makei, mentre nella prima reazione da Mosca la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha detto che i dirigenti russi sono «scioccati». E l’ambasciata russa a Minsk ha parlato di «perdita irreparabile». Fra due giorni il capo della diplomazia bielorussa avrebbe dovuto incontrare il ministro degli Esteri di Mosca, Serghei Lavrov. L’annuncio della scomparsa di Makei cade nello stesso giorno in cui i media ucraini hanno pubblicato le affermazioni di un centro studi americano secondo il quale il presidente russo Vladimir Putin avrebbe un piano per eseguire un attentato, o un falso attentato, a Lukashenko per intimidirlo e così spingerlo a intervenire direttamente con le sue truppe al fianco di Mosca in Ucraina. Un piano che potrebbe essere messo in pratica già nei prossimi giorni, afferma il Robert Lobert Lansing Institute, che si presenta come un’organizzazione impegnata nella ricerca volta a «migliorare la capacità euro-atlantica di contrastare le operazioni ibride e rispondere alle minacce emergenti per raggiungere obiettivi strategici». Per questo nel suo post su Twitter Gerashchenko ha parlato di un possibile «avvertimento“ diretto proprio a Lukashenko. Pur legata a Mosca da stretti accordi politici, economici e militari, Minsk si è astenuta finora dal prendere parte direttamente al conflitto ucraino. Dalla fine di ottobre, tuttavia, le truppe dei due Paesi hanno avviato uno schieramento congiunto sul territorio bielorusso che prevede l’invio di circa 9.000 soldati russi, armamenti e jet Mig-31 per costituire il primo nucleo di una forza integrata prevista dagli accordi bilaterali sullo Stato dello Unione. La Bielorussia dunque cerca di mantenere un difficile equilibrio per salvaguardare anche i suoi interessi nazionali. E lo testimoniano le apparizioni del suo ministro degli Esteri sulla scena internazionale. Stretto collaboratore di Lukashenko fin dal 2000, poi suo capo di gabinetto e infine capo della diplomazia dal 2012, Makei ha difeso con convinzione le motivazioni della Russia per giustificare la sua operazione militare in Ucraina. Ma nel settembre scorso, quando si trovava a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, ha affermato in un’intervista a France 24 che Minsk era interessata a tenere anche «aperti i canali di comunicazione» con l’Europa, definendo l’Ue «un buon partner commerciale ed economico». Quanto all’Ucraina, affermava l’esigenza di «mettere fine al conflitto il prima possibile“ attraverso le vie diplomatiche.