Sordo alle proteste della comunità internazionale, Vladimir Putin ha deciso di procedere con l’annessione dei quattro territori ucraini dove si sono svolti i referendum che le cancellerie occidentali hanno definito delle “farse». Gli accordi saranno firmati domani con una cerimonia in pompa magna nella Sala di San Giorgio al Cremlino con i capi delle quattro entità, e saranno accompagnati da una festa popolare sulla Piazza Rossa. Un programma che stride con le scene delle migliaia di russi in fuga dal Paese per sottrarsi alla possibile chiamata alle armi.
I Paesi baltici e la Polonia hanno già chiuso da settimane le loro frontiere ai russi, e a loro si è unita ora la Finlandia. Ma l’esodo continua attraverso le frontiere meridionali, specie con la Georgia e il Kazakhstan, e, più a est, con la Mongolia. Eppure niente sembra poter distogliere il Cremlino dai suoi piani, da realizzare anche attraverso la mobilitazione parziale dichiarata il 21 settembre. Le prime unità dei riservisti richiamati, ha fatto sapere il ministero della Difesa, si sono già costituite, e saranno impiegate per «controllare i territori liberati» in Ucraina. In primis, dunque, le aree di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, che si apprestano ad entrare a far parte della Federazione e che quindi Mosca difenderà come proprio territorio. «Con tutti i mezzi a disposizione», ha già avvertito Putin, con un chiaro riferimento alla dottrina sulla deterrenza nucleare.
A nulla dunque sono serviti i moniti, gli appelli e le proteste da tutto il mondo. Tra questi, quello del presidente del Consiglio Mario Draghi, che in un colloquio telefonico con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha assicurato che “l’Italia non riconoscerà l’esito dei referendum». «Non accetteremo mai nessuna annessione dei territori ucraini occupati», ha rincarato l’Ue. Mentre il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha avvertito che «le annessioni non hanno posto nel mondo moderno». Ma a far sentire la sua voce è stata anche la Turchia, che ha cercato finora di imbastire una difficile opera di mediazione per cercare di riportare la pace: “I referendum causano problemi, avrei preferito che non li avessero tenuti», ha detto il presidente Recep Tayyip Erdogan, che in serata ha avuto un colloquio telefonico con Putin. Il quale, però, tira dritto.
Mentre sotto le mura del Cremlino viene allestito un enorme palco per le celebrazioni in piazza, con la scritta ‘Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson, Russia, insieme per semprè, nella sala di San Giorgio si completano i preparativi per la firma dell’atto di adesione e per un discorso del presidente che il suo portavoce ha già preannunciato come «corposo». Non è difficile prevederne il contenuto. Un assaggio si è avuto oggi, quando Putin è intervenuto in videoconferenza a una riunione dei capi dei servizi di sicurezza e intelligence delle nove ex repubbliche sovietiche ora membri della Comunità degli Stati indipendenti (Csi). Il presidente ha riproposto lo scenario che vede i Paesi occidentali (“i nostri avversari geopolitici» li ha definiti) impegnati a seminare il caos nello spazio ex sovietico “con rivoluzioni colorate e bagni di sangue» per salvaguardare la propria «egemonia unipolare». Anche il conflitto in Ucraina è conseguenza di questo. E tutto ciò, ha avvertito, porta a “rischi di destabilizzazione nell’intera regione dell’Asia-Pacifico».
Le ambasciate occidentali a Mosca sentono il clima farsi più ostile e soprattutto avvertono i crescenti pericoli per una situazione di incertezza e confusione alimentata anche dalla corsa a lasciare il Paese. Dopo gli Usa, la Polonia e la Bulgaria, anche la Romania ha invitato i propri cittadini ad abbandonare immediatamente la Russia. Mentre l’Italia, sottolineando «la crescente difficoltà nei collegamenti aerei e su strada in uscita dalla Russia», ha raccomandato ai connazionali di «valutare se la permanenza sia necessaria e, in caso contrario, di lasciare il Paese».
Ma Putin cerca di rassicurare i russi e gli stranieri. La mobilitazione rimane «parziale», ha sottolineato in una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, e riguarda solo i riservisti con esperienza militare. Nessuna chiamata generale alle armi, dunque, e se ci sono stati «errori, essi devono essere corretti e non devono essere ripetuti in futuro».
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