Il cooperante italiano Alberto Livoni, fermato una settimana fa, e il gruppo di salesiani finiti in una retata il giorno prima, sono stati liberati. Ma la morsa della polizia e della magistratura etiope su una presunta "quinta colonna" tigrina ad Addis Abeba non si allenta. E gli etiopi continuano a cercare e scandagliare qualsiasi pista o persona secondo loro sospetta. E continuano a trattenere i due colleghi locali dell’operatore umanitario, setacciando ogni attività, anche dei religiosi, alla ricerca di connivenze con i miliziani del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (Tplf).
La scarcerazione del 65enne Livoni, arrestato sabato 6 novembre, è stata annunciata dall’Ong di cui è coordinatore per l’Etiopia, il «Vis» (’Volontariato internazionale per lo sviluppò), ringraziando l’Ambasciata d’Italia ad Addis Abeba «per l’instancabile impegno» che ha portato alla sua liberazione, nonostante lo stato di emergenza imposto al Paese non ponga limiti temporali ai fermi di polizia. L’ong resta però “in apprensione» per i suoi due operatori locali di cui auspica «un immediato rilascio».
Le autorità etiopi, almeno secondo indiscrezioni mediatiche, volevano chiarire la destinazione di circa 20 mila dollari versati da Livoni ed escludere che servissero a finanziare il Tplf proprio mentre i suoi miliziani sono a circa 400 chilometri a nord di Addis Abeba, minacciando di attaccare la capitale. Un incubo che spinge le forze di sicurezza, anche attraverso centinaia di arresti, a cercare chiunque possa rivoltarsi all’interno della città in qualche momento critico o possa sostenere le forze tigrine finanziariamente. Come sta accadendo nel caso di un sacerdote salesiano di Chioggia, don Cesare Bullo, 80 anni, coordinatore del Don Bosco nel Paese che da giorni viene sentito dalla polizia sulle sue iniziative in Etiopia, anche se non è mai stato formalmente fermato e resta a piede libero. Anche lui è un salesiano, come i 17 confratelli che «sono tornati a casa» dopo essere stati fermati il 5 novembre e interrogati a lungo su aspetti economici delle loro attività scolastiche.
Il quadro in cui avvengono fermi e interrogatori è quello di una guerra civile già con migliaia di morti e più di 2,5 milioni di sfollati iniziata nel novembre dell’anno scorso: l’hanno ingaggiata con alterne fortune i miliziani di un’etnia minoritaria (i tigrini sono meno del 6% della popolazione) che però ha controllato politicamente ed economicamente l’Etiopia per oltre un quarto di secolo.
Si tratta di una regione autonoma che non si rassegna al ridimensionamento imposto dal giovane premier etiope Abiy Ahmed: un premio Nobel per la pace in virtù della conclusione dell’ultradecennale conflitto con la confinante eritrea, trasformatosi in guerriero nel tentativo di superare l’attuale federalismo etnico attraverso un discorso unitarista basato sul concetto di «medemer» (parola che vuol dire sinergia) . Intanto il nigeriano Olusegun Obasanjo, inviato speciale dell’Unione africana per il Corno d’Africa, ha dichiarato che spera ancora di porre fine al conflitto attraverso un dialogo che però - ha avvertito - non può iniziare senza un preliminare cessate il fuoco immediato.
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