Resta in alto mare la Alan Kurdi: una settimana dopo aver salvato al largo della Libia 64 migranti, la nave di Sea Eye è ancora senza un porto dove poter sbarcare i 50 uomini, le 12 donne, tra le quali una incinta, e i due bambini.
«Stiamo finendo le scorte di cibo e acqua potabile e si sta avvicinando una nuova perturbazione. Abbiamo bisogno di un rifugio sicuro», è il nuovo appello che arriva dalla nave.
La situazione però resta di stallo. Dopo il rifiuto dell’Italia di concedere un porto e l’ingresso nelle acque territoriali, la Alan Kurdi si è diretta verso Malta, ma anche La Valletta non ha consentito l’attracco in uno dei suoi scali.
Da sabato, dunque, la nave si mantiene all’esterno delle acque territoriali maltesi, a sud est dell’isola, con una rotta da est a ovest e viceversa. Una situazione che rischia di trascinarsi ancora a lungo visto che Malta, se l’Europa non troverà una soluzione che chiami in causa anche gli altri stati membri, non cambierà idea e al massimo, come già avvenuto in passato, provvederà a rifornire la nave in alto mare di quanto necessario per proseguire la navigazione.
A Bruxelles però, al momento, la soluzione non ce l’hanno. «La Commissione Europea - ripete un portavoce - ha avviato da venerdì intensi contatti con gli stati membri per un coordinamento con tutti quei Paesi che sono pronti a far parte degli sforzi di solidarietà nei confronti delle persone a bordo della nave Alan Kurdi e questi contatti proseguono. Siamo pronti a sostenere dal punto di vista diplomatico rapide soluzioni, come fatto in diverse occasioni in passato».
Il dato certo è che ancora una volta non c'è accordo tra gli Stati membri e che, lo ammette anche la Commissione, vanno trovate «soluzioni a lungo termine, urgenti e prevedibili» per evitare che ad ogni soccorso in alto mare si ripeta questo balletto.
Tutti distinguo politici che ai migranti a bordo della nave interessano poco. Sea Eye ha postato un video sui suoi profili social in cui si vedono gli uomini tutti ammassati sul ponte, che cercano di ripararsi il più possibile dalla pioggia e dal vento sotto dei tendoni improvvisati. «Sono persone che hanno subito violenze, torture, stupri - dicono dalla Ong - si trovano sul ponte, bagnati e infreddoliti, hanno bisogno di un aiuto immediatamente».
Quello che hanno vissuto in Libia lo racconta Benjamin, un nigeriano di 30 anni. «E' stato un inferno, è il peggior paese che io abbia mai visto da quando sono nato. E’ un paese corrotto, non civilizzato, utilizzano i neri come schiavi. Da quando sono arrivato nel 2015 non sono mai stato libero».
Lui e gli altri a bordo della Alan Kurdi dalla Libia sono riusciti a fuggire, ma altre migliaia sono ancora intrappolati
nei centri di detenzione, governativi e non. A conferma che il paese nordafricano, ben prima che i venti di guerra soffiassero nuovamente su Tripoli, è tutto fuorché sicuro.
E così si ripete l'assurdo gioco della politica che da una parte ribadisce - oggi lo fa l’Alto rappresentante dell’Ue Federica Mogherini - che «l'Ue non ha mai considerato la Libia un Paese sicuro» e dall’altra continua a finanziare la guardia costiera libica affinché riporti i migranti a Tripoli.
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