Giovedì 19 Dicembre 2024

Brexit, Theresa May prende tempo e Corbyn apre a un referendum bis

Jeremy Corbyn supera le sue esitazioni da storico euroscettico di sinistra e alza la bandiera di un referendum bis sulla Brexit. L’annuncio, anticipato dai media, trova conferma a conclusione di una riunione serale del leader laburista col gruppo parlamentare. La mossa, forse solo tattica, per ora è differita. Ma comunque appare un tentativo di rovesciare il tavolo dopo che la premier conservatrice Theresa May è tornata a rifiutare l'offerta dell’Ue di un rinvio del divorzio da Bruxelles a poco più di un mese dal 29 marzo, data ufficiale dell’uscita, e dal rischio - in mancanza di un accordo approvato a Westminster - di 'no deal' potenzialmente catastrofico per l’economia britannica. Corbyn ha formalizzato la decisione di presentare mercoledì 27 un emendamento per chiedere alla Camera dei Comuni sostegno al proprio piano alternativo per una Brexit super soft che lasci l'intero Regno Unito nell’unione doganale e garantisca «un allineamento ravvicinato al mercato unico» europeo. Ha inoltre confermato l’appoggio a un secondo emendamento - promosso trasversalmente dalla deputata laburista Yvette Cooper e dal ribelle conservatore pro Remain Oliver Letwin - che se approvato imporrebbe alla May, in caso di bocciatura finale della propria linea entro il 13 marzo, di passare la palla al Parlamento e di chiedere a Bruxelles lo slittamento. Ma - e qui sta la novità - ha pure annunciato di essere pronto a sposare ufficialmente un terzo emendamento (da presentare il mese prossimo) favorevole a «un nuovo voto pubblico» sulla Brexit, laddove questa settimana il piano B laburista fosse di nuovo rigettato dalla pur precaria maggioranza formata dal Partito Conservatore e dagli alleati della destra unionista nordirlandese del Dup. «In un modo o nell’altro faremo tutto quanto in nostro potere per evitare un no deal o una devastante Brexit Tory basata sull'accordo di Theresa May già bocciato a valanga» una prima volta dalla Camera dei Comuni, ha promesso il 'compagno Jeremy'. La svolta lo aiuta innanzi tutto a frenare i timori di un’emorragia di deputati dal Labour, dopo la recente scissione di una decina di fuoriusciti blairiani che lo accusavano di ambiguità sulla Brexit, oltre che di aver spostato il partito troppo a sinistra e di non combattere con sufficiente convinzioni le denunce di fenomeni di antisemitismo. Anche se potrebbe rivelarsi soltanto un gesto dimostrativo visto che - come Corbyn sa - ad oggi non pare esserci ai Comuni una maggioranza favorevole all’ipotesi del secondo referendum. In ogni caso dall’ala più eurofila del gruppo laburista le prime reazioni sono state positive e di parziale ricompattamento nei confronti della leadership. Mentre fra i fedelissimi del team corbyniano, la ministra ombra degli Esteri, Emily Thornberry, ha spiegato la correzione di rotta strategica in questi termini: «Il primo ministro continua a prendere tempo per mettersi nella condizione di poter dire al Parlamento all’ultimo minuto 'o il mio deal o un no deal'. Noi invece pensiamo che entrambe queste alternative siano disastrose e in questo caso riteniamo che si debba tornare dal popolo per rompere l’impasse». Immediata la replica di Brandon Lewis, presidente del Partito Conservatore, che ha accusato Corbyn e il vertice Labour di aver compiuto una giravolta e tradito l’impegno di «rispettare il mandato popolare del referendum» del 2016. Un mandato che Theresa May resta viceversa convinta di dover attuare e di poter portare a termine entro il 29 marzo, come ha ripetuto da Sharm El-Sheik, a margine del vertice Ue-Lega Araba, rispondendo ancora una volta con un secco 'no, grazie' all’invito del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk di valutare se non altro la richiesta di rinvio come una scelta «razionale». Una scelta che anche 3 ministri moderati della sua compagine (Amber Rudd, Greg Clarke e David Gaucke) la sollecitano pubblicamente a prendere in considerazione, senza escludere le dimissioni qualora il temuto 'no deal' dovesse diventare un’opzione concreta. Ma che la premier al momento non sembra nemmeno porsi: tanto più dopo «i buoni progressi» evocati, sempre a Sharm, con Jean-Claude Juncker sulla possibilità d’un qualche compromesso in tempo utile da allegare alle intese sul contrastato dossier del backstop per il confine irlandese; e in attesa di vedere come andrà a finire davvero la sfida di Corbyn.

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