STRASBURGO. «Non si può vietare l’uso delle immagini di Gesù e di Maria nelle pubblicità». Con una sentenza destinata a fare scalpore e che ha già innescato polemiche, in particolare in Italia e Oltretevere, la Corte europea dei diritti umani è scesa in campo legittimando l’uso dei simboli religiosi nelle campagne pubblicitarie e ha condannato la Lituania per aver multato un’azienda che si era servita delle figure di Gesù e della Madonna su poster e internet per vendere vestiti.
Pietra dello scandalo alcune fotografie tra cui quella che ritraeva un giovane uomo con i capelli lunghi, un’aureola intorno alla testa, tatuato che indossa un paio di jeans. Sotto l'immagine lo slogan «Gesù, che pantaloni!».
A 45 anni di distanza dal famoso spot dei Jeans Jesus del duo Pirella-Toscani ("Chi mi ama mi segua», lo slogan sulla notissima foto di un lato B con gli short) che fece scalpore in Italia, la storia sembra dunque ripetersi.
Allertate da un centinaio di cittadini che ritenevano la pubblicità offensiva e in nome della morale pubblica, le autorità lituane erano scese in campo e avevano multato la società che si era servita dell’immagine e dello slogan per vendere vestiti. Ma a differenza di qualche decennio fa, questa volta è entrata in gioco la Corte europea dei diritti umani. Dopo avere visionato le immagini e gli slogan utilizzati, apparsi su poster e su internet, i giudici di Strasburgo hanno affermato che le immagini «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane" e che «non incitano all’odio» o possono essere considerate un attacco gratuito o violento a una religione. Oltre all’immagine dell’uomo che richiama Gesù la società aveva utilizzato anche quella di una giovane donna che indossava un abito bianco, anche lei con un’aureola e in mano una collana di perle accompagnata dallo slogan «Cara Maria, che vestito!».
Ma la Corte di Strasburgo non si è soffermata solo sulle immagini, ma ha valutato anche il ragionamento seguito dalle autorità di Vilnius nella loro decisione di multare la società. Qui i giudici hanno convenuto che le ragioni date dalle autorità sono «vaghe e non spiegano con sufficiente esattezza perché il riferimento nelle pubblicità a simboli religiosi era offensivo».
In particolare, la Corte ha criticato le autorità lituane per aver giudicato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa» senza spiegare quale fosse lo stile di vita incoraggiato e come le foto e le didascalie in questione lo stessero favorendo. I giudici hanno anche criticato il fatto che il solo gruppo religioso consultato per giudicare del caso sia stato quello cattolico.
La sentenza della Corte di Strasburgo ha già sollevato polemiche in Italia. «I simboli religiosi sono sacri», ha tuonato il leader della Lega e candidato premier Matteo Salvini, mentre padre Francesco Occhetta, gesuita, scrittore della "Civiltà Cattolica» ha affermato che la decisione dei togati ha "tradito il principio di laicità che si fonda sul rispetto della libertà religiosa».
«Avevano visto bene le autorità lituane - ha ribadito mons. Mauro Cozzoli, teologo della pontificia università Lateranense - che avevano disapprovato la pubblicità. Al contrario della Corte di giustizia europea che concorre, con sentenze come queste alla deriva libertaria della libertà e con essa del diritto e della democrazia».
Caricamento commenti
Commenta la notizia