ROMA. «Faccio appello alla Turchia perché liberi tutti i giornalisti. Non è accettabile essere incriminati per il lavoro che si svolge», la gente «deve sapere» cosa succede nel mondo. Un Gabriele Del Grande provato ma battagliero ha celebrato il suo rilascio nel giorno della Liberazione incontrando i giornalisti che hanno gremito la sala della stampa estera a Roma. E ha continuato a incalzare la Turchia di Recep Tayyp Erdogan: «Non chiamatemi eroe, ho solo fatto il mio lavoro. Sono uno dei tanti, ci sono ancora 174 giornalisti in carcere. Chiedo di essere giudicato per il mio lavoro, nulla di più». Accanto alla moglie Alexandra, Gabriele ha ringraziato coloro che si sono mobilitati e «che mi hanno dato forza in quei giorni in cui ero in isolamento. Sapere che fuori c'era chi, a livello istituzionale e di piazza, spingeva per la mia liberazione mi dava forza». Il reporter ha poi rievocato i momenti in cui è stato fermato e l’inizio della sua odissea durata 14 giorni dietro le sbarre di due centri di detenzione ed espulsione turchi. «Siamo stati fermati a Rihanli, lungo il confine tra Turchia e Siria, in uno dei ristoranti più buoni della città. Si sono presentati otto agenti in borghese che ci hanno mostrato un distintivo, e poi portato in commissariato», ha raccontato Del Grande. Era insieme alla sua fonte: di lui «non so nulla da quando ci hanno separati». Sottolinea che la città «è lungo il confine, nessuno mi ha detto di non andare». Ma soprattutto «non avevo alcuna intenzione di entrare in Siria, il mio lavoro in Turchia era di ricerca, per scrivere un libro». Per questa ragione, sottolinea, «non ho chiesto alcun accredito stampa». «Non sono propriamente un giornalista. Non so quanti professori o scrittori siano in Turchia per approfondire questi o altri temi, ma nessuno ha avuto questo tipo di accredito». Dal settembre scorso, Gabriele è stato in Turchia quattro volte per il progetto di un libro sulla guerra in Siria e la nascita dell’Isis. «Il mio obiettivo è di cercare e trovare delle storie. Se i giornalisti si fermassero davanti ai cavilli, saremmo vigili urbani», ha sottolineato con ironia. La sua situazione, dal punto di vista giuridico, resta oscura: le autorità turche «non hanno formalizzato alcuna accusa», mentre il suo legale denuncia che per cinque giorni Ankara ha opposto il silenzio alle richieste di informazioni sulla sorte del reporter arrivate dalle autorità di Roma e che non ha consegnato alcuna documentazione sulla vicenda. Ma ai poliziotti turchi che lo hanno accompagnato in aeroporto ha promesso: «Vado via dalla Turchia, ma non vedo l'ora di tornare»