NEW YORK. Ashley G., una vita breve, trascorsa in lotta tra anoressia e bulimia, si è spenta a 30 anni, nel reparto cure palliative dell'ospedale di Morristown in New Jersey, come aveva chiesto lei. La donna è morta solo tre mesi dopo che un giudice aveva accolto la sua richiesta di non essere sottoposta ad alimentazione forzata. «Sono lieto che lei, come voleva, non soffra più, ma estremamente triste perchè nemmeno la scienza o una famiglia piena d'amore sono riuscite a salvarla», ha commentato l'avvocato della donna, Edward Alessandro. Ashley pesava poco più di 30 chili, aveva le ossa fragili come una 92enne e dal 2014 era paziente del "Greystone Park psychiatric Hospital" di Parsippany: nel 2016 aveva detto al tribunale di non voler più bere o mangiare e di voler essere lasciata morire. Nel corso di una complessa battaglia legale, inizialmente la procura dello stato del New Jersey rigettò la sua richiesta, sostenendo che Ashley non era mentalmente in grado di intendere e volere, e che l'anoressia non è una malattia terminale. Fu anche ordinato di sottoporre la donna ad alimentazione forzata e in caso di provare un farmaco sperimentale. Ma nel ricorso all'ordinanza, i medici che l'avevano in cura hanno testimoniato che Ashley soffriva di anoressia nervosa terminale. Lei stessa disse che avrebbe resistito alla nutrizione artificiale e chiese nuovamente di essere lasciata morire nel reparto di cure palliative. L'avvocato D'Alessandro, in sua difesa, sottolineò inoltre come la fragilità delle ossa della donna l'avrebbe uccisa con fratture multiple. Il 21 novembre la sentenza definitiva: il giudice Paul Armstrong stabilì che la testimonianza di Ashley era stata «chiara, diretta, cosciente, volontaria e credibile. Lei capiva che il risultato di non permettere l'alimentazione artificiale l'avrebbe potuta portare alla morte».