Lunedì 23 Dicembre 2024

Strage di Bruxelles, Fioravanti: «Dall'arresto di Salah troppi errori»

PALERMO. I militari sono l'ultimo anello della catena, fanno bene il loro dovere ma questo è inutile se non c'è tutto quello che precede: analisi della situazione, prevenzione, diplomazia, intelligence, politica, pianificazione strategica. Il generale Maurizio Fioravanti ha guidato per alcuni anni il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (COFS). Ha grande esperienza di missioni militari in teatri difficili, come Bosnia, Libano ed Afghanistan. E ha le idee chiare sull'impiego dei militari in contesti come l'attuale, per la lotta al terrorismo e all'Isis: gli interventi armati possono servire, tanto nei nostri quartieri quanto in Libia, ma solo a patto che intorno ci sia il giusto consenso. A suo parere cosa è andato storto in Belgio? «Si tratta di una vicenda ancora da approfondire ma che sicuramente ci sta dando qualche addestramento di cui fare tesoro al di là della tragedia. Possiamo parlare di una non buona condotta nell'arresto di Salah. Una condotta esemplare delle Forze speciali avrebbe portato a catturarlo vivo ma a raccontare che era deceduto nell'operazione. In questo modo si sarebbe potuto interrogarlo riservatamente in un posto segreto, per apprendere le informazioni necessarie, ma anche per tutelare la sua famiglia. Dal punto di vista dei terroristi Salah già ha fallito perché non si è fatto esplodere negli attentati di Parigi, e adesso è vivo e in mano alle forze dell'ordine: è chiaro che la cerchia dei suoi familiari e conoscenti ora è in pericolo di vita, sotto minaccia. Oltretutto lui lo sa e la sua condotta ne sarà influenzata. L'operazione di un reparto ben organizzato può anche essere perfetta, ma quel che conta quando catturi qualcuno di importante è cosa ne esce fuori. Quindi da Bruxelles - al di là della tragedia - bisogna soprattutto apprendere qualche lezione per essere più efficaci». Qualche altro esempio? «Il primo è il coordinamento fra le forze. Non solo quelle europee, ma persino dentro la stessa nazione. In Belgio ci sono cinque o sei forze di sicurezza e hanno dimostrato di non avere un buon coordinamento fra di loro. Così come tra Belgio e Olanda. Sono errori che costano caro. Ci sono perfino ripercussioni internazionali: basti vedere che il presidente Erdogan ha colto la palla al balzo per infierire sulle divisioni europee e farsi passare per l'unico che combatte davvero il terrorismo». Detto questo, l'intervento sempre più frequente delle forze speciali nei quartieri europei fa impressione... «Di fronte all'attuale minaccia terroristica è logico usare le forze migliori, seppure ci sia tutta una serie di problematiche. Il punto è che in Europa non abbiamo ancora sviluppato una sensibilità alla convivenza con questo tipo di terrorismo. Prendiamo l'esempio del tassista chiave delle indagini a Bruxelles: dopo che aveva percepito le cose che ha raccontato, un qualunque tassista israeliano mai avrebbe continuato a portare quelli in aeroporto, ma avrebbe inchiodato davanti a qualche polizia, sarebbe scappato fuori e avrebbe gridato che c'era qualcosa che non andava. Le Forze speciali sono solo l'ultimo atto di tutta l'attività di prevenzione e intelligence che dovrebbe precedere, e anche le migliori servono a poco se non c'è tutto quel che serve a monte». Questo per il terrorismo interno. Che pare almeno sotto certi profili alimentato da nemici esteri, come l'Isis. Sotto questo aspetto cosa possono fare i militari? Servono? «Per gli interventi militari bisogna essere prudenti. Per questo secondo una mia valutazione personale, in politica estera sto concordando pienamente con le scelte del nostro governo. Bene ha fatto l'Italia ad esempio ad essere fin dall'inizio fra le voci che hanno tentato di rallentare le azioni contro Damasco. Lo stesso vale oggi in Libia. Un attimo. Bene ha fatto il ministro Pinotti a dire cosa l'Italia è in grado di mettere in campo in caso di intervento in Libia, comandante compreso. Ma una cosa è definire quali siano gli strumenti pronti, un'altra è decidere se e cosa fare. E come ha precisato il premier Renzi nulla è stato ancora deciso». Tony Blair ha parlato della necessità di mettere «gli scarponi sul terreno» contro l'Isis. Che ne pensa? «Bisogna essere prudenti e continuare a privilegiare la via diplomatica perché se non si arriva a una condizione di condivisione fra le mille fazioni e tribù libiche sarebbe impensabile e folle mandare un contingente militare: vorrebbe dire solo esporlo ad attacchi da tutte le parti. L'Italia non può fare questa cosa da sola. Tutto deve essere accettato dalle parti in causa in Libia e in una coalizione internazionale. Ci vuole un mandato internazionale e una richiesta delle autorità locali». Se tutto questo ci fosse, cosa potrebbero fare i militari italiani e internazionali? «Quello che servirebbe è un'assistenza diretta e forte, in tutte le varie forme di cui il Paese necessita, cioè soprattutto ricostruzione delle strutture, delle forze di polizia, delle forze speciali. La chiave della nostra assistenza dovrebbe essere nella formazione e addestramento. Cosa peraltro già richiesta e che facevamo in Italia fino a un paio di anni fa, prima che collassassero le autorità libiche». Quindi formazione e addestramento. Ma nel caso dell'Isis, anche in Libia, potremmo essere coinvolti anche in vere operazioni militari? «È tutto da vedere, da costruire. Le opzioni dovranno essere chiaramente espresse nel mandato internazionale e nella richiesta delle legittime autorità locali, col più ampio consenso locale possibile. A quel punto le operazioni che si dovranno e potranno svolgere saranno di vario tipo, secondo le esigenze: pianificazione, intelligence, forze speciali, raid aerei, operazioni militari classiche. Dipenderà dalla situazione. L'esperienza più recente è stata l'Afghanistan, dove da un intervento diretto massiccio pian piano si è passati alla formazione di forze regolari, forze speciali e forze di polizia, che sono state da noi accompagnate facendo insieme operazioni su richiesta del governo legittimo, finché via via ormai da un anno e mezzo le loro compagnie sono completamente formate e procedono da sole sul terreno, e a noi resta solo da offrire supporto nella pianificazione. In particolare nel mondo musulmano non bisogna mai farsi vedere come occupanti, e noi italiani siamo stati sempre molto attenti e bravi sotto questo aspetto a differenza di altri alleati. Tutto quello che devono fare devono essere loro a farlo. E questo anche perché non dobbiamo dimenticare che integralisti e terroristi vogliono e perseguono il controllo di tutto il mondo musulmano, e l'Europa è solo un aspetto marginale. La stragrande maggioranza delle vittime di questa guerra globale sono musulmane».

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