Sono passati più di quattro mesi, ma alla fine l’hanno preso. Salah Abdeslam, ricercato numero uno per gli attentati di Parigi del 13 novembre, è stato catturato nel cuore d’Europa, a Bruxelles, e nello stesso distretto dove era stato ideato l’attacco alla capitale francese: Molenbeek, il quartiere di Salah, praticamente casa sua. «Lo abbiamo fatto», ha annunciato il governo belga, ma perché c’è voluto così tanto? Per Francesco Tosato, responsabile Affari militari del Centro studi internazionali, i tempi sono giustificati «da un’indagine complessa, che ha dovuto far fronte alla difficoltà di trovare riscontri investigativi. Inoltre, si è dovuto prima organizzare un lungo coordinamento tra la polizia belga e quella francese». Nessuna falla, dunque, nelle forze di sicurezza di Bruxelles? Le ricordo che due persone sono fuggite durante il blitz del 15 marzo nella casa di Forest, e probabilmente anche Salah è passato da lì. «Di certo il Belgio, rispetto alla diffusione e al radicamento della minaccia terroristica sul proprio territorio, ha dovuto prendere atto di una situazione che all’inizio era stata probabilmente sottovalutata. Non era preparato a tutto questo. Quando si è capito che la base logistica degli attentati in Francia era in patria, le autorità hanno dovuto agire in fretta e in furia per costruire un ponte con i colleghi francesi e scovare le basi operative dei terroristi. C’è voluto del tempo, era normale e inevitabile. Forse la vera falla va cercata non nel livello investigativo ma in quello operativo. Lo si è visto proprio nel blitz di martedì scorso: le forze di sicurezza si sono presentate nel covo di Forest suonando il campanello, non hanno neanche circondato la casa. Non si fa un’operazione antiterrorismo in questo modo. Evidentemente non avevano idea che lì dentro potesse esserci il ricercato numero in Europa. Il risultato è stato una raffica di mitra e la fuga dei terroristi dal retro. In questo senso, la polizia belga sta ancora imparando, sul campo, a fronteggiare un pericolo al quale non era abituata». Ma non le sembra strano che Salah Abdeslam si nascondesse nel proprio quartiere, il primo posto dove andarlo a cercare? «Succede anche in Italia, nell’ambito delle organizzazioni mafiose: il padrino rimane nel suo territorio per far sentire il suo potere e perché lì ha protezioni e spalleggiatori che non troverebbe altrove. È molto probabile che a Molenbeek il terrorista avesse una solida rete d’appoggio, e per questo si sentiva sicuro. Sarà interessante, adesso, capire chi lo può aver aiutato durante tutto questo tempo». L’arresto dimostra comuqnue che anche i più pericolosi foreing fihters possono essere fermati. Del resto, in Francia, dall’inizio dell’anno sono finite in manette 74 persone. Ma come si fa a debellare il pericolo alla radice? «Purtroppo il rischio zero non esisterà mai. Sul piano dell’intelligence, quello che si può fare è continuare a rafforzare lo scambio di dati transfrontaliero tra le polizie dei paesi europei. Lo facciamo già, ma dobbiamo potenziare questa rete, alimentare e aumentare il database sui soggetti ritenuti pericolosi, e seguire le tracce di queste persone lungo i loro spostamenti in Europa. Non si può pensare che se un foreing fihters è di origine belga il problema è solo del Belgio. Ma insieme al rafforzamento di una intelligence comunitaria, che è la prima, fondamentale difesa, occorrerebbe unificare anche il piano operativo: per evitare situazioni come quelle del 15 marzo a Forest servirebbero dei protocolli settati, da eseguire allo stesso modo in tutti i paesi ogni qual volta le forze di sicurezza si trovano davanti dei terroristi, per gestire al meglio, con gli stessi efficaci parametri, un eventuale scontro con persone ben armate, addestrate e pronte a tutto. Bisogna arrivare a un livello omogeneo di operatività». Il Belgio ha il più alto tasso di cittadini in Europa che hanno scelto di unirsi all'Isis. Perché? «Negli ultimi anni il paese ha accolto molte persone che non sono riuscite a mettere radici in Francia perché legate all’estremismo algerino o di altri paesi del Nord Africa e per questo ritenute pericolose. Nel tollerante e tranquillo Belgio, già prima che nascesse il Daesh, hanno trovato una specie di paradiso in cui costruire il retroterra propagandistico e logistico del radicalismo. Una piattaforma perfetta». Ma qual è il principale canale di reclutamento? «A parte le nuove forme di comunicazione, web e social media, via principale per l’auto radicalizzazione, il luogo caldo che deve essere sempre monitorato è il carcere, dove l’emarginazione può essere sfruttata ai fini della radicalizzazione della persona. Senza dimenticare ovviamente le periferie urbane, dove è più facile si formino sacche di estremismo. Non bisogna mai dimenticare che la principale fonte del terrorismo in Europa è la marginalizzazione sociale della terza generazione di immigrati: cittadini europei che non riescono a integrarsi con il nostro modello socioeconomico. Il germe del terrorismo nasce da lì».