«Da Parigi a Bruxelles quelli che crollano sono i castelli di illusioni. Le illusioni della società occidentale e le illusioni di quelli che vivendo ai margini vorrebbero ottenere i lustrini promessi e collezionano solo frustrazioni, fino a cadere nelle maglie della jihad. L’arresto di Salah potrà essere importante per la lotta al terrorismo, ma quel più conta è il sostrato in cui tutto questo nasce e si alimenta. Ne è convinto Alberto Negri, inviato del Sole24Ore, grande esperto di questioni mediorientali e terrorismo jihadista. Ci sono voluti quattro mesi per catturare Salah e i suoi complici? «Per mesi qui si è avuto l’impressione che tra Parigi e Bruxelles carnefici e vittime vivessero gli uni accanto agli altri. Bruxelles si è rivelata un porto delle nebbie, la capitale dell’Europa che al contempo è la capitale del jihadismo europeo, dove i fantasmi del terrore si aggirano minacciosi e indisturbati. Salah è stato preso a due passi dalla strada dove era già stato condotto il blitz di qualche mese fa. È sempre tornato a Molenbeek, quartiere che lo ha protetto. All’arresto non c’è stato neanche un applauso per l’operazione di polizia, ma solo gente ostile con rabbia malamente repressa. D’altro canto la polizia si è aggirata in questi quartieri come fossero ninja estranei e stranieri. Intanto Salah col suo complice passava tranquillamente varie frontiere europee senza che nessun poliziotto li fermasse, anche in Paesi come Austria e Ungheria che tirano su i muri e fanno passare i terroristi super-ricercati». C’è incapacità, superficialità? «L’impressione è che questa guerra al califfato e al terrorismo qui in Europa la si faccia un po’ a spanne, ci si limiti a fare un po’ di propaganda quando un drone centra un obiettivo lontano e poi qui da noi succede di tutto sotto il naso. Si ha l’idea che cosa si muove in Europa, cosa nel Medio Oriente, rimanga tutto un po’ avvolto nel mistero. Le classi dirigenti europee purtroppo sono colpevolmente ignoranti su ciò che si muoveva nel mondo. Ora scopriamo che non si sa nulla neanche di quello che succede nelle nostre periferie. L’antiterrorismo si fa in un altro modo, come peraltro noi qui in Italia sappiamo fare. Quel che ci vuole è prevenzione, contatti umani, informatori giusti, indagini che durano anni, relazioni, conoscenza, tener d’occhio le persone per prenderle al momento giusto. Anche noi potremmo fare molti più arresti, retate, confusione, ma siamo sicuri che è quello che serve?». C’è alla base un problema di integrazione? «L’impressione è che i belgi vivessero senza sapere chi fosse il loro vicino di casa, e che ci fossero quartieri banlieues vissuti come apartheid, da decenni. Il Belgio già tanto frazionato consente a tutti i frammenti di vivere come vogliono come se fossero estranei, ma questa non è integrazione, genera anzi un senso di estraneità e di straniamento che poi si paga». C’è un problema di convivenza? «Questa non è convivenza, che presuppone lo scambio e la predisposizione allo scambio. Al massimo è una giustapposizione fra convivenze, ognuno vive alla sua maniera ma anche in maniera ostile. Questo è uno stato di ostilità permanente che la società non vuole vedere perché si tratta di portare alla luce problemi laceranti, che coinvolge i presupposti del perché si viene a vivere qui. È un problema di modelli offerti dalla nostra società: il modello sociale che predica soldi e successo genera solo frustrazioni e il jihadismo diventa attrazione indentitaria per scaricare la rabbia. I ragazzi delle banlieues vogliono solo uscire da là secondo il modello occidentale con una macchina di lusso e belle ragazze sopra, ma quanti possono riuscirci? Invece si sono scontrati con la frustrazione e ora che sono scomparse le ideologie che riuscivano a coinvolgere anche le fasce marginali il loro posto è stato preso dalla facile scorciatoia del jihadismo. Tutto ciò ha fatto di questi quartieri roccaforti jihadiste protette dalla popolazione locale». Ma allora come si fa l’integrazione? «Dovremmo avere il coraggio di ripensare i nostri modelli, i nostri stili di vita. E poi è fondamentale l’istruzione, ma appunto dipende da cosa si insegna, quali modelli offriamo, quali illusioni generano frustrazioni nei giovani, che siano occidentali o immigrati. E soprattutto integrazione e istruzione non vanno imposte, ma proposte, altrimenti generano rigetto. Quello che è successo fra Parigi e Bruxelles è il crollo dei castelli di illusioni, le illusioni dei giovani che ce la volevano fare, le illusioni della convivenza, le illusioni dell’Europa di essere una società opulenta, sicura e pacifica». In tema di antiterrorismo, l’arresto di Salah è un colpo importante o solo un simbolo? «Questo non lo so, speriamo di sì. Ma cadono forse i presupposti che hanno alimentato queste situazioni? Vengono meno le cose di cui abbiamo appena parlato? Sono state risolte le situazioni di instabilità intorno all’Europa, le guerre che hanno fatto sprofondare le frontiere di mille chilometri, in modo che ora le frontiere dell’Europa di fatto includono al loro interno Turchia e Libia, e nessun accordo di scambi di persone pagando la Turchia o chi per lei può cambiare la situazione? A me sembra di no».