ROMA. Prima l'endorsement al ruolo guida dell'Italia in un eventuale intervento militare in Libia. Poi i 'numeri' sugli uomini che Roma potrebbe schierare. Ora gli Stati Uniti frenano: "Spetta all'Italia decidere e definire i dettagli del suo impegno" nel Paese nordafricano.
E' lo stesso ambasciatore americano a Roma, John Phillips, a tre giorni da un'intervista al 'Corriere della Sera' in cui parlava di 5000 militari italiani da impegnare, a voler precisare il senso delle sue parole. "Non si è trattato affatto di un suggerimento o di una raccomandazione da parte degli Stati Uniti", si legge in una nota dell'ambasciata di Via Veneto. "Ho semplicemente detto - spiega quindi Phillips - che l'Italia ha pubblicamente indicato la sua volontà di inviare circa cinquemila italiani. Per quanto riguarda la preparazione e la tempistica, si tratta di decisioni che non sono state ancora prese". Una cifra, quella di 5000 militari, evocata dal ministro della Difesa Roberta Pinotti oltre un anno fa, facendo un parallelo con il numero massimo di soldati inviati nella missione in Afghanistan.
Ma dopo giorni di notizie che lasciavano pensare a un'accelerazione nella preparazione di un intervento anti-Isis, un freno era stato posto già ieri dal premier Matteo Renzi. "La guerra non è un videogioco, è una cosa seria - ha detto a 'Domenica Live' da Barbara D'Urso -, e bisogna aver rispetto per le parole. Con cinquemila uomini a fare l'invasione della Libia, l'Italia con me presidente non ci va". L'opposizione critica la scelta del premier di aver parlato di Libia in tv, anziché in parlamento. Sarà invece Gentiloni a fornire mercoledì - prima al Senato, e poi alla Camera - un'informativa urgente sulla situazione nel Paese.
Un appuntamento che era già stato convocato sin dalla scorsa settimana, e poi reso ancor più necessario dalla morte di due dei quattro tecnici della Bonatti rapiti a luglio. In Aula il ministro ribadirà probabilmente quella che è la condizione necessaria senza la quale, per il governo italiano, una missione militare non è neanche ipotizzabile: e cioè, che sia un esecutivo libico unitario a chiederla. E su questo, assicura in serata il Dipartimento di Stato a Washington, Italia e Stati Uniti sono "in totale sintonia": "Rimaniamo stretti partner con l'Italia, a Roma abbiamo avuto diverse riunioni e stiamo lavorando a stretto contatto a sostegno della formazione di un governo di unità nazionale", dice il portavoce Mark Toner, senza tuttavia nascondere che gli Usa hanno già compiuto alcuni raid contro leader dell'Isis in Libia perché in ballo c'era "la sicurezza nazionale".
Il problema però è che il governo di unità mediato dall'Onu tarda a vedere la luce per l'incapacità del parlamento riconosciuto, insediatosi a Tobruk, di dare la fiducia alla squadra del premier designato Fayez Sarraj. Mentre dal canto suo la 'rivale' Tripoli - il cui governo filo-islamista rivendica di essere "l'unico legittimo" - ha già messo in chiaro di non voler interventi stranieri. "Cinquemila soldati italiani? Preferiremmo tecnici, dottori, ingegneri.
Ci servono civili per ricostruire la Libia, non soldati per distruggerla", ha ribadito anche oggi il vicepremier della capitale Ahmed Amihimid al Hafar al Corsera, chiedendo invece "armi, munizioni e sostegno logistico" per combattere l'Isis da soli. Sulle forze speciali già schierate sul territorio libico, è stato il sottosegretario alla Difesa, Nicola Latorre, a spiegare oggi la norma contenuta nel decreto sulle missioni internazionali: "Qualora si debba intervenire in operazioni di interesse nazionale, come ad esempio supportare un'azione di liberazione di nostri connazionali sequestrati, oppure un'azione di intelligence che non preveda un'azione militare, si possono utilizzare reparti speciali delle forze armate, con le immunità funzionali di chi opera nei servizi di intelligence. Si tratta - ha sottolineato - di unità numericamente assai esigue, poche decine di persone che non agiscono dal punto di vista bellico".
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