«Certo non è stata una riunione di routine, quella del Consiglio Supremo della Difesa, convocato giovedì scorso dal presidente della Repubblica. L’intervento in Libia è un’eventualità più che concreta, visto come si sta evolvendo la situazione. Prima, però, devono verificarsi tre condizioni». Marcello De Donno, l’ex capo di stato maggiore della Marina ora ai vertici dell’Istituto romano di studi strategici «Machiavelli», non crede che la missione militare italiana nel «Paese del Caos» possa scattare già nelle prossime ore: «Occorre — spiega l’ammiraglio — che si formi un governo di unità nazionale libica riconosciuto dalla comunità internazionale, che faccia richiesta di intervento. Ma serve pure che questa iniziativa riceva l’apprezzamento del Consiglio di sicurezza dell’Onu. I tempi, comunque, sono maturi. Anzi, già nei mesi scorsi sarebbe stata necessaria una presa di posizione forte».
Da un anno, i paracadutisti della Folgore si preparano a entrare in azione con esercitazioni che simulano scenari libici. Insomma, siamo pronti?
«Le nostre Forze Armate sono perfettamente consapevoli che questa è un’evenienza ad alta probabilità, quindi si sono predisposte sotto tutti i punti di vista a rispondere con la prontezza necessaria qualora dovesse arrivare una decisione politica in tal senso. Credo proprio che lo strumento militare sia preparato, anche perché ha un’esperienza molto ampia maturata su teatri non dissimili da quello libico».
Cioè?
«Mi riferisco all’approccio di questo conflitto, che è diverso dagli standard di carattere militare. Al suo carattere di asimmetria. Anche dal punto di vista degli equipaggiamenti, peraltro, siamo attrezzati per muoverci in contesti come quello libico. Non una guerra globale, ma comunque un’attività bellica che si caratterizzerà anche in relazione al contributo di altri Paesi».
Oltre ai parà, sembra scontato che possano essere impiegati pure i corpi speciali di Esercito, Marina e Aeronautica: su tutti, il Reggimento d’assalto «Col Moschin» e gli Incursori. Seguiranno — come ipotizzato da alcuni analisti — la catena di comando dei servizi segreti?
«Escludo in modo tassativo che, per operazioni da farsi con le componenti tradizionali dello strumento militare, possa esservi una catena di comando diversa dalla solita. Altro è dire, invece, che per missioni particolari vi possano essere forme di collaborazione e integrazione di risorse, di conoscenze, con i servizi. Questo fa parte della dinamica di certe attività».
Il Mediterraneo torna al centro di attenzioni e preoccupazioni, non solo per l’Italia. Tempo di... straordinari per la nostra Marina Militare?
«Già attualmente la Marina ha un ruolo di primissimo piano, per quanto attiene il controllo della situazione in mare. Qui, ad ogni modo, si parla di intervento a terra. Almeno in fase di avvio, quindi, saranno le componenti specialistiche delle tre Forze armate a dovere intervenire sul campo: mi riferisco, ad esempio, ai marò. Nel Mediterraneo, comunque, la Marina militare italiana è anche oggi presente in posizione di comando con numerose navi, portaerei comprese».
La guerra all’Isis, in Siria e Iraq, insegna che i raid servono a poco. Lezione valida pure per la Libia?
«Io non credo che al momento si parli di questo. Può pure servire l’uso dei Predator (droni, ndr) da parte americana per colpire qua e là, ma attualmente si dibatte del problema di quando e come andare sul terreno. È già stato ampiamente dimostrato che non si debella l’Isis attaccando solo dall’alto. Ciò vale ancor più in Libia dove non esistono forze locali credibilmente capaci di affrontare sul campo il Califfato, a differenza di quanto in Siria e nella parte nord-orientale dell’Iraq stanno facendo i peshmerga curdi».
Nella nostra ex colonia, la presenza del Califfato sembra l'ultimo dei problemi...
«Anche in Siria la situazione è molto frammentata e il governo è avversato da molte fazioni, stesso rischio corre l’esecutivo libico di unità nazionale (la cui formazione è subordinata all’approvazione del Parlamento di Tobruk, attesa per lunedì, ndr). Al conflitto siriano, però, possiamo guardare con maggiore o minore preoccupazione solo con riferimento all’esodo dei profughi, mentre il fatto che possa esistere un Califfato ben piantato in Libia costituisce una minaccia diretta alla nostra sicurezza nazionale. Comprenderete che, per l’Italia, la situazione è del tutto diversa».
Missione necessaria, malgrado sia carica di rischi?
«La guerra non è mai una cosa facile e priva di rischi. Siamo, però, alla ricerca di guarigione da una malattia grave. Da che mondo è mondo, in condizioni di questo tipo non si può non fare i conti con possibili sofferenze e perdite. Se è vero che siamo di fronte a un grave pericolo per la sicurezza nazionale, bisogna affrontarlo. Costi quel che costi».
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