«Le crepe dell'ordine mondiale lasciano irrisolte le vecchie crisi, dall'Ucraina alla Grecia, e favoriscono le nuove: terrorismo, immigrazioni, Medio Oriente. Trasmettono così un senso di fragilità e paura che, nelle opinioni pubbliche, rafforza populismo e nazionalismo innescando un pericoloso circolo vizioso. Le crisi generano paure, le paure generano crisi». Appena pubblicato il Rapporto 2016 dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale-Ispi, il direttore Paolo Magri non nasconde timori e allarmi per il moltiplicarsi delle aree di crisi: «Pessimisti mai - commenta -. Ma crescentemente preoccupati, si!». Nel Rapporto Ispi scrivete di ordine internazionale in fase di «implosione». Perchè? «Perché populismo e nazionalismo, in crescita sia nelle economie avanzate che fra i cosiddetti emergenti, stanno spingendo molti Paesi ad affermare con forza crescente l'interesse nazionale a scapito di quello collettivo. Viene così minata la struttura di governance mondiale di cui ci siamo dotati, con grande difficoltà, per affermare gli interessi collettivi: Onu, Unione Europea, Fondo Monetario internazionale». Medio Oriente e Nord Africa sono l'epicentro del terremoto geopolitico «in corso». Troppo vasta e frastagliata l'area di crisi per sperare in una soluzione positiva? «Come dicevo, il pessimismo va evitato ma far prevalere un qualche ottimismo in quest'area è oggettivamente difficile visto che si sommano conflitti interni, legati al processo politico e alle disuguaglianze economiche, tensioni fra le potenze regionali, conflitti religiosi e le ricadute del difficile rapporto fra Washington e Mosca. Con l'aggiunta della nuova minaccia costituita da Isis. Tutto ciò consegna uno scenario confuso, con alleati storici come Usa-Turchia-Arabia che attuano politiche che possiamo definire eufemisticamente "poco coordinate", ma anche vecchi amici che si confrontano anche militarmente. Mi riferisco a Erdogan, Putin e Hassad. Oppure, vecchi nemici che tornano a guardarsi con sospetto: Usa e Russia. Nel frattempo il nemico dichiarato di tutti, il Califfato, agisce quasi indisturbato sullo sfondo». Tra le cause di instabilità, voi indicate «le incertezze» degli Stati Uniti. Fallimentare, almeno in politica estera, il bilancio della presidenza Obama? «Gli Usa finiscono sul banco degli imputati, non sempre a torto, sia quando eccedono con interventismo come fu con Bush junior, sia quando eccedono con la cautela. È il caso di Obama. Il mio giudizio sulla politica estera dell'attuale presidente non è in realtà così negativo: ha fatto ciò che ha potuto per evitare errori del passato, in Iraq e Libia, e pare pienamente consapevole che gli Usa, benché siano ancora la potenza militarmente egemone, non sono più in grado di "ordinare" il mondo senza sostegno e consenso di nuovi attori, cioè le varie potenze regionali, e di vecchi attori ritornati abilmente sulla scena. La Russia, in primo luogo». Non resta che sperare nelle prossime elezioni americane. O la situazione può solo peggiorare? «Coerentemente con la mia visione non necessariamente negativa su Obama e alla luce di come stanno procedendo le primarie, temo che in molti potrebbero rimpiangere la cautela di Obama. Anche se questa, a volte, è parsa eccessiva: quasi un disimpegno». Il protagonismo della Russia ha spiazzato Washington. Ma Putin può essere un interlocutore affidabile nei tavoli di pace? «Putin è un leader forte alla guida di un Paese economicamente debole, non certo solo a causa delle sanzioni. Ha dimostrato straordinarie capacità tattiche ma ci sono dubbi crescenti sulla sua capacità di elaborare una strategia coerente nel tempo e in grado di evitare seri problemi futuri al suo Paese. È riuscito a riconquistare centralità in Medio Oriente ma si è schierato apertamente con due nazioni sciite, Iran e Siria, in un'area travagliata dallo scontro sunniti-sciiti. Solo col tempo potremo valutare le conseguenze profonde di questa politica». Tutti contro tutti in Siria. E il califfo ringrazia. Davvero, per usare il titolo di un saggio di Alessandro Orsini, quelli dell'Isis sono «i terroristi più fortunati del mondo»? «È innegabile che l'attenzione e l'impegno militare dedicati a loro sia inferiore a quello che Turchia, Russia, Arabia Saudita e siriani stanno dedicando a farsi guerra fra loro. Lo stesso avviene in Libia. Il confronto fra i due governi, ora addirittura tre, che si contendono il Paese sta lasciando ampio spazio alle milizie di Isis che si sono radicate stabilmente a Sirte e Derna». L'Unione Europea ormai rassegnata a recitare il ruolo di vaso di coccio tra i vasi di ferro? «In politica estera lo è sempre stata. Lo è ancor di più ora, attraversata com'è da divisioni profonde che mettono in dubbio le sua stessa esistenza. Mi riferisco, in particolare, alle politiche economiche necessarie a uscire dalla crisi e alla gestione dei flussi migratori». Per l'Italia, prioritaria l'emergenza libica. Necessario un intervento militare nel «Paese del Caos»? «Probabilmente sì, alla luce degli interessi economici e di sicurezza che ci legano alla Libia. Questo non significa, però, essere disponibili ad intervenire ad ogni costo ma solo se si verificheranno le condizioni minime per garantire il successo all'intervento: un accordo politico interno, la presenza di una coalizione di Paesi, obiettivi realistici anche alla luce dei nostri limitati mezzi militari, uno strategia di medio termine. E, soprattutto, la consapevolezza politica e nell'opinione pubblica che sarà una impresa lunga, complessa e rischiosa. Al momento, nessuna di queste condizioni mi pare rispettata».