«Per stroncare la resistenza ad Aleppo, come altrove in Siria, si lascerà morire di fame gli assediati, sfiancando i ribelli con bombardamenti indiscriminati. Anche gli ospedali sono un obiettivo, perché spesso i ribelli si nascondono là». Per Luciano Tirinnanzi, direttore della rivista di geopolitica e sicurezza internazionale «LookOut News», nessuna sorpresa nell'apprendere del raid russo contro una struttura di Msf-Medici Senza Frontiere in provincia di Idlib, nel nord del Paese: «Mosca - spiega - sta seguendo la stessa tecnica che fu vincente a Grozny, nella guerra cecena». In Siria cresce ogni giorno, ogni ora, il numero delle vittime. Dopo il sostanziale fallimento della conferenza di Monaco, situazione senza via di uscita? «Saranno le manovre sul campo dei prossimi giorni a dimostrare la solidità o la fragilità degli accordi. La tregua proposta a Monaco per ora ha prodotto risultati opposti. Siamo ben lontani dalla fine delle ostilità, anche perché la coalizione russo-siriana non intende disperdere proprio adesso il vantaggio militare sinora acquisito. Neanche il blocco turco-saudita, che sostiene i ribelli, può temporeggiare perché è troppo alto rischio di perdere ulteriore terreno e vedere frantumarsi le fazioni anti-Assad. Se cade Aleppo, per i sunniti sarà la fine delle ambizioni di creare in Siria un loro protettorato». Più concrete le speranze per la Libia, dov'è stata appena presentata la nuova lista dell'esecutivo di unità nazionale. Sarà la volta buona? «Difficile crederlo. Da registrare ci sono gli sforzi non indifferenti della diplomazia e degli sherpa locali, che hanno limato una proposta di governo arrivando a compilare una lista di soli diciotto ministri. La precedente lista, dove compariva un numero spropositato e inadeguato di possibili ministri (trentadue, ndr), era infatti irricevibile. Ma il punto è che l'accordo resta sulla carta, anche se dovesse essere approvato dal governo di Tobruk. Chi osserva la Libia sa bene che quel governo non controlla realmente il territorio e che non basteranno una manciata di ministri a placare le spinte centrifughe. Cruciale sarà il ruolo politico delle tribù e la volontà di deporre le armi da parte delle milizie di Misurata». Il primo tentativo era fallito un mese fa, affossato nella «laica» Tobruk dalla Camera dei Rappresentanti. Perché adesso dovrebbe andare meglio? «Prima o poi, un governo si farà. Almeno inizialmente, però, servirà soltanto da apripista per dare copertura legale a una coalizione militare finalizzata a schiacciare i jihadisti. I quali non sono rappresentati solo dallo Stato Islamico, ma anche da Ansar Al Sharia e altri gruppuscoli che sono avvantaggiati nei loro traffici illegali proprio grazie a questo caos. Ciò che più conta per molte fazioni in lotta è il mantenimento del potere economico, mentre non se ne fanno niente di un parlamento e di un governo centrale». Malgrado le diffidenze, le accuse di connivenza con i gruppi terroristici, il Parlamento islamista di Tripoli sembra non volere ostacolare gli accordi di pace. Solo tattica? «Va detto che i libici odiano lo Stato Islamico. Anche chi promuove una soluzione islamista per la Libia e vorrebbe applicata la Sharia quale legge fondamentale dello Stato, disapprova il modus operandi delle milizie del Califfato. Molte di queste, peraltro, sono forze straniere. Come nell'ultima fase della guerra tra Gheddafi e i ribelli, in Libia sono presenti numerose soldataglie mercenarie, provenienti soprattutto da Ciad, Sudan, Nigeria». I clan tribali restano il vero ago della bilancia. Che faranno adesso? «Per loro, tutto è una questione di convenienza. Non c'è una patria o una bandiera da salvare, ma la salvaguardia dei propri interessi economici e sociali. È importante capire che molte di queste popolazioni berbere non conoscono il concetto di confine statuale e non riconoscono le frontiere disegnate sulla mappa ma inesistenti tra le dune del deserto». Ansar al-Sharia, filiale locale del Califfato, controlla ancora una parte del Paese. Viene, intanto, segnalato un significativo aumento di "foreign fighters". Attualmente, qual è la reale consistenza dell'Isis in terra libica? «Le forze locali e straniere che irrobustiscono il Califfato intorno a Sirte e al suo prezioso bacino petrolifero sono stimate intorno alle cinquemila unità. Le cifre più prudenti parlano di circa tremilacinquecento uomini, ma il dato è probabilmente da aggiornare, considerato che molte forze jihadiste sono presenti anche a Bengasi. Il punto è però quali e quante armi sono in possesso di queste forze: recenti foto apparse sui social network dell'Isis mostrano un bottino di guerra notevole, frutto di un probabile saccheggio a Sidra e Ras Lanuf: moltitudini di tank, blindati e cannoni sono pronti all'uso». Impossibile confidare nel ritorno alla stabilità, senza l'intervento di una coalizione occidentale? «L'Occidente dovrebbe fare le "pulizie di primavera" al posto di un esercito libico a pezzi e di forze che non sono in grado di respingere tecniche di guerra miste a tecniche di guerriglia. L'abilità dello Stato Islamico è dettata anche dal fatto che essi sono ex militari e c'è da credere che resisteranno fino all'ultimo uomo. Solo una forza occidentale è in grado di schiacciarli, ma a quale prezzo?» Il generale Maurizio Navarra, in un'intervista al "Giornale di Sicilia", ha bocciato ogni ipotesi di missione militare italiana «perché passeremmo per occupatori e attireremmo il terrorismo contro di noi». D'accordo? «D'accordo col fatto che noi italiani non siamo neanche lontanamente pronti a pagare il prezzo oneroso che una guerra impone. Che i soli bombardamenti dall'alto non siano sufficienti, ormai lo sanno anche i bambini. Perciò, bisognerebbe andare sul campo e restare il tempo necessario per la transizione politica. Ma che cosa direbbe l'opinione pubblica al primo rimpatrio delle salme dei nostri soldati? Quanto ad attirare il terrorismo in casa, è certo una possibilità». Mai come ora, necessario controllare il Mediterraneo e i «barconi della disperazione»? «Va inquadrata la mossa della Nato che a febbraio ha spedito proprie forze nel Mediterraneo per contrastare "i trafficanti di esseri umani e l'immigrazione illegale" nel mar Egeo. L'operazione è condotta dai mezzi di Germania, Grecia e Turchia. Ma non sono state chiarite le regole d'ingaggio. Se non possono operare in acque internazionali o affondare i barconi, ad esempio, a cosa servono?».