PALERMO. «L’Italia sulla sponda libica ha sempre avuto una buona intelligence, e non facciamo riferimento soltanto a quella elettronica, delle intercettazioni. Il nostro Paese ha poi mantenuto nel tempo una presenza costante e questo ha portato ad avere una buona conoscenza dell'ambiente locale». Lo afferma il generale Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore della Difesa, commentando il dialogo aperto tra Roma e Washington. Un dialogo confermato direttamente dalla Casa Bianca, quando spiega che l'Italia è un Paese che in quella parte del mondo ha «esperienza, risorse e capacità» alle quali l'amministrazione Obama attingerebbe «per portare avanti i nostri obiettivi in quella regione». Sul fronte di un possibile intervento, secondo il generale Arpino, «la cautela che stiamo utilizzando in questa fase è buona. Stiamo facendo un buon lavoro. Quando s'interviene bisogna, infatti, intervenire a colpo sicuro sapendo già che cosa fare e, soprattutto, cosa si vuole fare dopo». Sulla Libia, Washington ha già fatto sapere che conterà sull'Italia. Quali sono i punti di forza del nostro Paese in questo senso? «Il primo punto di forza è l'intelligence che è soprattutto di tipo Humint (Human intelligence, ndr), che è quella più importante e che deriva dal contatto con le persone del posto. Contatto che non sempre è lineare e può essere ambiguo. Tradizionalmente l'Italia in Libia ha avuto sempre una grande capacità. Spero che questa sia stata mantenuta, anche perché eravamo fornitori di intelligence. Poi i servizi sono stati ristrutturati basando molto sull'elettronica, sulle intercettazioni... Tornando ai punti di forza dell'Italia in Libia, altro aspetto importante è l'Eni, ex Snam, che nel paese africano continua a giocare un grande ruolo. Attorno a questa rete si polarizzava oltre che una grande capacità industriale, di trasporti e di condotte, anche una capacità derivata di informazioni. Il terzo punto di forza è la conoscenza dell'ambiente locale. Al di là dell'intelligence c'è stato sempre un rapporto con la Libia. Soprattutto negli ultimi anni, dopo Gheddafi. C'è stato un commercio, sia grande che piccolo. Questo ci ha portato a conoscere le persone che contano. L'altro elemento di forza è che siamo stati gli ultimi, quando tutti scappavano, a mantenere aperta un'ambasciata a Tripoli. Poi abbiamo dovuto chiudere anche noi». Quali sono i rischi che corriamo nel caso di intervento in Libia? La Sicilia si trova, in un certo senso, in prima linea nell'area del Mediterraneo... «Dal punto di vista militare nel nostro Paese rischi non ce ne sono. Lo escludo, se non quello dell'eventuale approdo di terroristi ma non per far male direttamente alla Sicilia. Gli interessi sono diversi, la Sicilia è importante nel mondo arabo. Sono passati i tempi di conquista anche per loro. Nonostante tutti i depositi di Saddam siano stati depredati, non dispongono di armi che possano essere offensive nei confronti dell'Isola. Né terrestri, né navali, né aeree. Dal punto di vista aereo poi la nostra difesa può essere resa impenetrabile. C'è anche da dire che non hanno dei mezzi in grado di portare offesa. L'Isola è al sicuro. Quando ci sono stati problemi con Gheddafi in passato ci si è mossi verso Pantelleria e Lampedusa. Tranquillizziamo quindi i siciliani: nessuno è in possesso di armi convenzionali che possano offendere il territorio nazionale. In caso di guerra bisogna ricordare, comunque, che mare e cielo sono bloccati». In che modo si può intervenire? «In Libia possiamo comparire assumendo il ruolo di addestratori e facendo, in qualche modo, la guardia all'insediamento del nuovo governo a Tripoli. Possiamo anche intervenire in Libia combattendo l'Isis. Oppure facendo entrambe le cose. A seconda dell'intervento è chiaro che cambia anche il livello di rischio. Dovremmo mettere in piedi una struttura di comando cui dovrebbero partecipare tutti gli alleati. E dobbiamo ricordare che con l'Isis non si tratta. In ogni caso è necessario anche fare i conti con le forze a disposizione, visto che al momento siamo impegnati anche su altri fronti». Che difficoltà ci sono nella guerra al Califfato? Siamo di fronte ad un conflitto che stenta a concludersi nonostante mesi di raid... «Bisogna considerare che ci troviamo davanti ad una lotta senza interlocutori. Una lotta a estinzione, in quanto con l'Isis non si dialoga, così come hanno ribadito loro più volte. Non si può, quindi, andare in guerra per trattare. In questo caso bisogna andare in guerra per vincere. E potrebbero andarci di mezzo anche altri, non solo i miliziani». Siamo arrivati al terzo vertice della coalizione internazionale anti-Isis. Al tavolo siedono i ministri degli Esteri di 23 paesi, europei, occidentali e della regione maggiormente impegnati nella Coalizione globale per il contrasto a Isis e l'Alto Rappresentante Ue. Si sta tentennando troppo o è auspicabile una soluzione ponderata? «In questo caso la difficoltà non risiede tanto nell'operare ma nell'arrivare a decidere e stabilire quale tipo di operazione portare avanti. La cautela che stiamo utilizzando in questa fase è buona. Stiamo facendo un buon lavoro. Quando s'interviene bisogna intervenire a colpo sicuro sapendo già che cosa fare e cosa si vuole fare dopo. Le fughe in avanti degli inglesi, dei francesi e le pressioni degli americani sono interessanti ma non tutte sono disinteressate. Soprattutto quelle dei francesi e degli inglesi sul fronte libico. Così come non sono disinteressate neanche certe alleanze». Quali prospettive ci sono per la risoluzione del conflitto con l'Isis? «Se dovessi esprimermi solo dal punto di vista militare sarei ottimista: l'Isis viene distrutto secondo i principi della guerra. Non c'è dubbio. Ma questo risolve metà del problema. Si devono poi fare i conti con i riflessi nelle periferie, con i combattenti che si trovano da noi. Schiacciando il tacco di più da una parte, aumentano i pericoli dall'altra e viceversa. C'è un compromesso da trovare. C'è da dire, comunque, che ho poca fiducia nelle coalizioni tra musulmani e tra arabi, che poco hanno funzionato nel corso degli anni».